giovedì 24 dicembre 2009
martedì 22 dicembre 2009
Chiesa. Parroci di frontiera: non crediamo in un Dio bianco, occidentale, friulano – giuliano, neppure “cristiano”
Fonte:
http://www.gennarocarotenuto.it/11916-chiesa-parroci-di-frontiera-non-crediamo-in-un-dio-bianco-occidentale-friulano-–-giuliano-neppure-cristiano
Chiesa. Parroci di frontiera: non crediamo in un Dio bianco, occidentale, friulano – giuliano, neppure “cristiano”
di Davide Divo
La lettera di Natale dei ’preti di frontiera’ del Friuli Venezia Giulia è stata presentata a Pozzuolo del Friuli (Udine)
La lettera è stata firmata da Pierluigi di Piazza, Franco Saccavini, Mario Vatta, Alberto De Nadai, Andrea Bellavite, Giacomo Tolot, Piergiorgio Rigolo, Luigi Fontanot e Albino Bizzotto. Definititi in passato “i preti di frontiera” per alcune posizioni critiche con quelle ufficiali della Chiesa.
‘Mi pare che troppe volte viene utilizzato Dio, quando si dice per esempio “l’identità cristiana”, ” le radici cristiane” nei confronti dell’altro che viene – dice Luigi di Piazza – Dio viene utilizzato tante volte per coprire progetti che sono di potere umano, questo non vuol dire nascondere le questioni problematiche, vuol dire assumerle con una sensibilità che una fede in Dio dovrebbe comunicare a tutti noi”.
All’incontro con la stampa nel Centro Balducci di Zugliano (Ud) ha partecipato anche Don Andres (José Andrés Tamayo Cortez), sacerdote dell’Honduras, costretto dal regime a lasciare il suo paese.
“Una situazione, quella che sta vivendo lo stato del centro America, di cui i grandi del mondo non parlano – ha ricordato Don Andres – Eppure dopo l’ascesa al potere di Micheletti, gli omicidi politici di chi tenta di opporsi al regime sono nell’ordine del giorno”
Il dio in cui non crediamo
Non crediamo in un Dio lontano, giudice freddo delle debolezze umane, indifferente ai drammi e alle speranze della storia.
Non crediamo in un Dio che giustifica l’esaltazione della proprietà privata, del capitalismo, dell’accumulo del denaro e dei beni.
Non crediamo in un Dio che suggerisce, alimenta e conferma l’i nimicizia fra persone e popoli; che quindi legittima la costruzione e la vendita delle armi, le guerre, le ronde, il reato di immigrazione irregolare, i vigili urbani armati, il potere salvifico delle telecamere.
Non crediamo in un Dio onnipotente quando con questo concetto si vuole intendere il più potente dei potenti di questo mondo; che si trova alla sommità delle gerarchie e dell’autoritarismo, che esige onori e privilegi e così conferma autoritarismi, onori e privilegi, da parte delle autorità della società, della politica, delle diverse religioni, della Chiesa.
Non crediamo in un Dio che umilia, che castiga, che alimenta i ricatti e i sensi di colpa delle persone.
Non crediamo in un Dio che si incontra solo o di preferenza nelle Chiese, nelle verità dogmatiche, nei simboli religiosi.
Non crediamo nel Dio delle grandi occasioni religiose, come il Natale, quando sono concepite come ingrediente del materialismo, del consumismo, della superficialità, di una religione che non coinvolge nella storia.
Non crediamo in un Dio bianco, occidentale, friulano – giuliano, neppure “cristiano” quando la sua presenza è pretesa per fondare e legittimare le discriminazioni; la xenofobia, il razzismo; per alimentare paure e sospetti; chiusure etniche, localistiche, identitarie; il culto di quella tradizione che trasforma la libertà evangelica in ossequio al conformismo.
http://www.gennarocarotenuto.it/11916-chiesa-parroci-di-frontiera-non-crediamo-in-un-dio-bianco-occidentale-friulano-–-giuliano-neppure-cristiano
Chiesa. Parroci di frontiera: non crediamo in un Dio bianco, occidentale, friulano – giuliano, neppure “cristiano”
di Davide Divo
La lettera di Natale dei ’preti di frontiera’ del Friuli Venezia Giulia è stata presentata a Pozzuolo del Friuli (Udine)
La lettera è stata firmata da Pierluigi di Piazza, Franco Saccavini, Mario Vatta, Alberto De Nadai, Andrea Bellavite, Giacomo Tolot, Piergiorgio Rigolo, Luigi Fontanot e Albino Bizzotto. Definititi in passato “i preti di frontiera” per alcune posizioni critiche con quelle ufficiali della Chiesa.
‘Mi pare che troppe volte viene utilizzato Dio, quando si dice per esempio “l’identità cristiana”, ” le radici cristiane” nei confronti dell’altro che viene – dice Luigi di Piazza – Dio viene utilizzato tante volte per coprire progetti che sono di potere umano, questo non vuol dire nascondere le questioni problematiche, vuol dire assumerle con una sensibilità che una fede in Dio dovrebbe comunicare a tutti noi”.
All’incontro con la stampa nel Centro Balducci di Zugliano (Ud) ha partecipato anche Don Andres (José Andrés Tamayo Cortez), sacerdote dell’Honduras, costretto dal regime a lasciare il suo paese.
“Una situazione, quella che sta vivendo lo stato del centro America, di cui i grandi del mondo non parlano – ha ricordato Don Andres – Eppure dopo l’ascesa al potere di Micheletti, gli omicidi politici di chi tenta di opporsi al regime sono nell’ordine del giorno”
Il dio in cui non crediamo
Non crediamo in un Dio lontano, giudice freddo delle debolezze umane, indifferente ai drammi e alle speranze della storia.
Non crediamo in un Dio che giustifica l’esaltazione della proprietà privata, del capitalismo, dell’accumulo del denaro e dei beni.
Non crediamo in un Dio che suggerisce, alimenta e conferma l’i nimicizia fra persone e popoli; che quindi legittima la costruzione e la vendita delle armi, le guerre, le ronde, il reato di immigrazione irregolare, i vigili urbani armati, il potere salvifico delle telecamere.
Non crediamo in un Dio onnipotente quando con questo concetto si vuole intendere il più potente dei potenti di questo mondo; che si trova alla sommità delle gerarchie e dell’autoritarismo, che esige onori e privilegi e così conferma autoritarismi, onori e privilegi, da parte delle autorità della società, della politica, delle diverse religioni, della Chiesa.
Non crediamo in un Dio che umilia, che castiga, che alimenta i ricatti e i sensi di colpa delle persone.
Non crediamo in un Dio che si incontra solo o di preferenza nelle Chiese, nelle verità dogmatiche, nei simboli religiosi.
Non crediamo nel Dio delle grandi occasioni religiose, come il Natale, quando sono concepite come ingrediente del materialismo, del consumismo, della superficialità, di una religione che non coinvolge nella storia.
Non crediamo in un Dio bianco, occidentale, friulano – giuliano, neppure “cristiano” quando la sua presenza è pretesa per fondare e legittimare le discriminazioni; la xenofobia, il razzismo; per alimentare paure e sospetti; chiusure etniche, localistiche, identitarie; il culto di quella tradizione che trasforma la libertà evangelica in ossequio al conformismo.
L'Europa deve dare un futuro a milioni di bambini nati europei ma trattati come stranieri - di Tahar Ben Jelloun
Fonte:
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/identita-e-una-casa-aperta/2117409&ref=hpsp
La popolazione europea è in via di mutamento nelle sue componenti, nei suoi colori, nella sua apparenza? O è simile al mare quale lo descrive, nei suoi 'Canti di Maldoror', il poeta Lautréamont: "Vecchio Oceano, simbolo dell'identità: sempre uguale a te stesso, nulla cambia della tua essenza."?
Di fatto, il paesaggio umano della nuova Europa sta mutando ogni giorno di più. Basta veder passare la folla nelle vie di Parigi, Francoforte o Torino. La mescolanza è ben visibile. I bianchi non sono più i soli rappresentanti della civiltà occidentale. Appaiono evidenti gli effetti dell'immigrazione di gruppi numerosi e diversi, alcuni strutturalmente insediati: il meticciato avanza, la cultura si arricchisce di nuovi apporti nel campo della musica, della letteratura, della gastronomia.
L'immigrazione è passata a una nuova fase. Non è più il tempo dell'arrivo di contadini analfabeti, scesi dalle montagne del Marocco o dell'Algeria. Le famiglie si ricompongono e cresce il numero dei figli nati in territorio europeo: non più immigrati dunque, anche se spesso i media e i politici tendono ad alimentare la confusione. Questi figli di immigrati sono europei, e non soltanto in base allo 'jus soli'. Il paese d'origine dei genitori lo conoscono appena; il loro universo psicologico e mentale si è formato nelle scuole e nelle strade di quest'Europa, che pure li considera cittadini di seconda categoria.
A Marsiglia, in occasione del Primo Colloquio tra scrittori del Mediterraneo (dal 20 al 22 novembre 2009), ho incontrato gli alunni di una classe elementare. I loro nomi: Bilal, Fatema, Marianne, Zeinab, Moktar, Kevin: tutti francesi, nati in Francia, che parlano un francese perfetto. Bianchi, neri, di origine araba, turca, vietnamita, armena o francesi doc. Per loro la questione dell'identità non esiste. Mi hanno fatto domande sul razzismo, sull'Islam, sulla pace tra ebrei e arabi, ma il tema dell'identità non ha mai neppure sfiorato la loro mente.
Il ministro francese dell'Immigrazione e dell'Identità nazionale Eric Besson ha scelto questo momento per lanciare un dibattito sulla questione dell'identità francese. Cosa vuol dire essere francesi? Significa appartenere a una comunità linguistica, culturale, religiosa? Oppure essere nati in terra francese, anche se da genitori stranieri?
La questione dell'identità è legittima quando viene posta da un agente di polizia o da una guardia di confine. Ma se a occuparsene sono i politici, c'è qualcosa di sospetto; vuol dire che esiste un disagio. L'identità non è immutabile come un blocco di cemento, e soprattutto non è definitiva; altrimenti si sconfina nel nazionalismo. Ne conosciamo i pericoli: è un sentimento che può portare alle derive dell'isterismo collettivo, e ai più pericolosi eccessi. Quando le identità si scontrano, spesso le cose volgono al peggio. Le guerre dell'ex Jugoslavia hanno dimostrato e fino a che punto le conseguenze possono essere sanguinose.
La purezza è l'unico ingrediente che non dovrebbe mai entrare nella composizione del concetto di identità. Hitler, che era un nostalgico di quella famosa purezza della razza, perpetrò il più grande genocidio della storia. Essere identici? Essere unici! L'individuo è unico, ma al tempo stesso somiglia a tutti gli altri individui. Ci assomigliamo perché tutti siamo unici. La nostra identità sta in questa diversità, in questa unicità. Sappiamo da tempo che un'identità chiusa, inaridita, perde il suo profumo e la sua anima. Un'identità è qualcosa che dà e riceve. In essa nulla è cristallizzato, definitivo. La Francia di oggi, l'Europa di oggi, sono sollecitate ad accettare con ottimismo e calore ciò che stanno diventando. L'opportunità sta precisamente negli apporti molteplici e variegati, nell'acquisizione della lingua e della civiltà degli europei.
Dobbiamo applaudire una squadra di calcio che gioca mediocremente o scorrettamente solo perché è quella del nostro Paese? Anche lo sport è diventato un vettore di simboli politici. Le nazioni si affrontano su un campo di football. Cito a memoria J. L. Borges che ironizzava: "L'Honduras ha schiacciato il Messico!". Ed è stato ancora Borges a dire, a proposito dell'identità argentina: "Gli egiziani discendono dai Faraoni, gli argentini dalle navi". Ma sia gli uni che gli altri non si perdono in discussioni inutili sull'identità nazionale. È in questo senso che Michel Rocard, già primo ministro di François Mitterrand, ha definito "stupido" il dibattito sull'argomento. E ha ragione. L'Europa ha altri cantieri ben più importanti di cui occuparsi per dare un futuro a milioni di bambini e di giovani nati europei, anche se trattati come stranieri. È ora che i nuovi europei possano essere tali in modo naturale e con semplicità. Per arrivare a questo bisogna però ammettere che un'identità è una casa aperta, che si ingrandisce e si arricchisce ogni giorno.
(traduzione di Elisabetta Horvat)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/identita-e-una-casa-aperta/2117409&ref=hpsp
La popolazione europea è in via di mutamento nelle sue componenti, nei suoi colori, nella sua apparenza? O è simile al mare quale lo descrive, nei suoi 'Canti di Maldoror', il poeta Lautréamont: "Vecchio Oceano, simbolo dell'identità: sempre uguale a te stesso, nulla cambia della tua essenza."?
Di fatto, il paesaggio umano della nuova Europa sta mutando ogni giorno di più. Basta veder passare la folla nelle vie di Parigi, Francoforte o Torino. La mescolanza è ben visibile. I bianchi non sono più i soli rappresentanti della civiltà occidentale. Appaiono evidenti gli effetti dell'immigrazione di gruppi numerosi e diversi, alcuni strutturalmente insediati: il meticciato avanza, la cultura si arricchisce di nuovi apporti nel campo della musica, della letteratura, della gastronomia.
L'immigrazione è passata a una nuova fase. Non è più il tempo dell'arrivo di contadini analfabeti, scesi dalle montagne del Marocco o dell'Algeria. Le famiglie si ricompongono e cresce il numero dei figli nati in territorio europeo: non più immigrati dunque, anche se spesso i media e i politici tendono ad alimentare la confusione. Questi figli di immigrati sono europei, e non soltanto in base allo 'jus soli'. Il paese d'origine dei genitori lo conoscono appena; il loro universo psicologico e mentale si è formato nelle scuole e nelle strade di quest'Europa, che pure li considera cittadini di seconda categoria.
A Marsiglia, in occasione del Primo Colloquio tra scrittori del Mediterraneo (dal 20 al 22 novembre 2009), ho incontrato gli alunni di una classe elementare. I loro nomi: Bilal, Fatema, Marianne, Zeinab, Moktar, Kevin: tutti francesi, nati in Francia, che parlano un francese perfetto. Bianchi, neri, di origine araba, turca, vietnamita, armena o francesi doc. Per loro la questione dell'identità non esiste. Mi hanno fatto domande sul razzismo, sull'Islam, sulla pace tra ebrei e arabi, ma il tema dell'identità non ha mai neppure sfiorato la loro mente.
Il ministro francese dell'Immigrazione e dell'Identità nazionale Eric Besson ha scelto questo momento per lanciare un dibattito sulla questione dell'identità francese. Cosa vuol dire essere francesi? Significa appartenere a una comunità linguistica, culturale, religiosa? Oppure essere nati in terra francese, anche se da genitori stranieri?
La questione dell'identità è legittima quando viene posta da un agente di polizia o da una guardia di confine. Ma se a occuparsene sono i politici, c'è qualcosa di sospetto; vuol dire che esiste un disagio. L'identità non è immutabile come un blocco di cemento, e soprattutto non è definitiva; altrimenti si sconfina nel nazionalismo. Ne conosciamo i pericoli: è un sentimento che può portare alle derive dell'isterismo collettivo, e ai più pericolosi eccessi. Quando le identità si scontrano, spesso le cose volgono al peggio. Le guerre dell'ex Jugoslavia hanno dimostrato e fino a che punto le conseguenze possono essere sanguinose.
La purezza è l'unico ingrediente che non dovrebbe mai entrare nella composizione del concetto di identità. Hitler, che era un nostalgico di quella famosa purezza della razza, perpetrò il più grande genocidio della storia. Essere identici? Essere unici! L'individuo è unico, ma al tempo stesso somiglia a tutti gli altri individui. Ci assomigliamo perché tutti siamo unici. La nostra identità sta in questa diversità, in questa unicità. Sappiamo da tempo che un'identità chiusa, inaridita, perde il suo profumo e la sua anima. Un'identità è qualcosa che dà e riceve. In essa nulla è cristallizzato, definitivo. La Francia di oggi, l'Europa di oggi, sono sollecitate ad accettare con ottimismo e calore ciò che stanno diventando. L'opportunità sta precisamente negli apporti molteplici e variegati, nell'acquisizione della lingua e della civiltà degli europei.
Dobbiamo applaudire una squadra di calcio che gioca mediocremente o scorrettamente solo perché è quella del nostro Paese? Anche lo sport è diventato un vettore di simboli politici. Le nazioni si affrontano su un campo di football. Cito a memoria J. L. Borges che ironizzava: "L'Honduras ha schiacciato il Messico!". Ed è stato ancora Borges a dire, a proposito dell'identità argentina: "Gli egiziani discendono dai Faraoni, gli argentini dalle navi". Ma sia gli uni che gli altri non si perdono in discussioni inutili sull'identità nazionale. È in questo senso che Michel Rocard, già primo ministro di François Mitterrand, ha definito "stupido" il dibattito sull'argomento. E ha ragione. L'Europa ha altri cantieri ben più importanti di cui occuparsi per dare un futuro a milioni di bambini e di giovani nati europei, anche se trattati come stranieri. È ora che i nuovi europei possano essere tali in modo naturale e con semplicità. Per arrivare a questo bisogna però ammettere che un'identità è una casa aperta, che si ingrandisce e si arricchisce ogni giorno.
(traduzione di Elisabetta Horvat)
venerdì 18 dicembre 2009
OTRO NUDO EN EL VELO, Abdelkarim García Cazorla
Fonte:
http://identidadandaluza.wordpress.com/2009/12/18/otro-nudo-en-el-velo/
Fátima, una adolescente marroquí, llega con su velo (hiyab) al instituto; es su primer día de clase. Antes de entrar, en el pasillo, una profesora habla con ella, quiere persuadirla para que no lo lleve, pregunta si sus padres la obligan a ponérselo, ella le dice que no, que ellos no quieren que lo utilice. Al final la profesora logra que Fátima desanude el pañuelo de su cabeza.
Este relato es parte del guión de un corto de Xavi Sala, pero podríamos imaginar a Fátima llegar con la cabeza descubierta a un colegio de un país musulmán y que sucediera lo contrario. Sin duda caben otras muchas versiones, con otros matices, pero en estas dos historias se repite una misma derrota; la libertad de elección, la capacidad de decidir por nosotros mismos, sobre todo cuando nuestra elección no parece perjudicial para los otros.
El velo suscita tensiones en occidente y dentro del Islam, con distintas naturaleza, pero con algunas curiosas coincidencias. Para algunos el hiyab (velo), es un deber y así se deduce de las principales fuentes normativas islámicas; el Corán y los Hadices (lo que el Profeta (sas) dijo e hizo). Es sin duda alguna en estos días la línea de pensamiento con mayor implantación y pujanza.
Para otros y acudiendo a esas mismas fuentes no es una obligación, pues según sostienen en las nueve ocasiones que el texto sagrado menciona el velo, no lo identifica con una parte de la indumentaria femenina, dicen que alude a un cortinaje que sirve para separación del espacio público del privado o al “jimar”, tela que tapa el escote. Y Muhammad (Sas) no quiso decir nada concluyente, entendiendo esta omisión como una forma de admitir un espacio para el criterio personal otra de las fuente del derecho islámico.
Y otras posturas minoritarias, consideran el debate sino innecesario si claramente irresoluble, creen que debe de prevalecer el principio de la no imposición en las cuestiones religiosas, según recoge un versículo del Corán, que recomienda la modestia y el pudor a la hora de vestir, para lo cual el hiyab tiene utilidad, pero sin hacer como algunos pretende una elección del vestuario para el hombre y tampoco para la mujer. Esta tendencia reclama la aceptación de todas las posiciones y dejar la elección a las protagonistas, pues las convicciones espirituales sólo son verdaderas y perduran cuando nacen de una aceptación voluntaria.
Los países musulmanes no conforman un bloque monolítico, ni está cuestión ni en muchas otras. Así Arabia, Irán imponen, persiguen e incriminan su no uso, otros lo prohíben en los espacios públicos y lo aceptan en el ámbito privado como es el caso de Túnez y muchos callan o nada dicen al respecto. Algo similar sucede con Francia comparada con Reino Unido y España, aquí se produce una coincidencia invertida; Francia, la cuna de las libertades y del laicismo escoge una regulación coactiva al igual que Arabia o Irán países clasificados como conservadores o abiertamente reaccionarios. Son coactivas cada a una a su manera por el simple hecho de ignorar e infringir, los derechos a la identidad personal y religiosa conformadores entres otros de la Declaración Universal de los Derechos Humanos.
Cuando Occidente señoreaba las tierras del Islam, le perturbaba el velo pues le atribuía la cualidad mágica de hacer las mujeres invisibles, insondables y misteriosas. Algo preocupante, pues para el colonizador en las mujeres musulmanas radicaba la preservación de las esencias y la transmisión a los hijos del Islam.
Desde hace unos cuantos años es la visibilidad de la mujer musulmana que recorre las calles tocada con el velo, el motivo de malestar, pues en ocasiones se interpreta como un desafío, una reivindicación identitaria y también como una señal rechazo a la integración. Estas ideas favorecen la reacción; más velos y una tendencia a cerrarse, replegar los puentes, los caminos de ida y vuelta que no deben de quedar cerrados.
La redefinición de conceptos como la integración es urgente, ya no puede desarrollarse bajo los mismos principios vigentes en la época colonial, cuando la ocupación de la tierra no era compatible con la independencia de las personas. Era necesario entonces, un esfuerzo destinado a pulir las diferencias, impedir las reservas a la imitación ciega del ocupante y a la aceptación complaciente de sus costumbres y pensamientos.
Es palpable que aún subsisten en mayor o menor medida algunos de estos trasnochados resabios, que distorsionan la percepción de velo reducido a un símbolo que lleva parejo, la aceptación de la opresión femenina y todas las cualidades retrógradas que estemos dispuestos atribuirle.
Las musulmanas dicen que hay tantas razones para llevar un velo, como cada una de las mujeres que lo usa, así que considerar que una musulmana tiene ideas avanzadas si se desprende del velo y que están subyugadas si lo lleva, es una deducción cierta en algunos caso, pero no deja de ser simplista entendida como generalidad.
Son muchas las musulmanas que valoran el de forma positiva las sociedades occidentales, reconocen sin reparos el avance y progreso de los derechos de la mujer y aducen esta circunstancia como esencial a la hora de vivir en España o países equiparables en este sentido.
Fue ayer en la acera de un colegio público, un grupo de mujeres musulmanas acaban de dejar sus hijos en el colegio, unas cubrían sus cabezas con el hiyab (velo) y otras no, hablaban y reían con las madres españolas de las cosas de sus hijos. Una monja clarisa de un convento cercano, bajaba la calle y al llegar a la altura del grupo se paró y las besó a todas. Las dejé allí con esa fraternidad elemental que tan fácil resulta a las mujeres y tanto cuesta a los hombres.
Esta escena no es una invención y supongo que situaciones similares se repiten en este país a diario, la convivencia no es tan imposible como algunos vaticinan ni tan fácil como otros desearíamos, pero por ahora sigue siendo posible.
* Abogado, periodista y musulmán (Imán de la Comunidad Musulmana Almedina)
(Sas) Puede ser traducido como paz y bendiciones para Muhammad
http://identidadandaluza.wordpress.com/2009/12/18/otro-nudo-en-el-velo/
Fátima, una adolescente marroquí, llega con su velo (hiyab) al instituto; es su primer día de clase. Antes de entrar, en el pasillo, una profesora habla con ella, quiere persuadirla para que no lo lleve, pregunta si sus padres la obligan a ponérselo, ella le dice que no, que ellos no quieren que lo utilice. Al final la profesora logra que Fátima desanude el pañuelo de su cabeza.
Este relato es parte del guión de un corto de Xavi Sala, pero podríamos imaginar a Fátima llegar con la cabeza descubierta a un colegio de un país musulmán y que sucediera lo contrario. Sin duda caben otras muchas versiones, con otros matices, pero en estas dos historias se repite una misma derrota; la libertad de elección, la capacidad de decidir por nosotros mismos, sobre todo cuando nuestra elección no parece perjudicial para los otros.
El velo suscita tensiones en occidente y dentro del Islam, con distintas naturaleza, pero con algunas curiosas coincidencias. Para algunos el hiyab (velo), es un deber y así se deduce de las principales fuentes normativas islámicas; el Corán y los Hadices (lo que el Profeta (sas) dijo e hizo). Es sin duda alguna en estos días la línea de pensamiento con mayor implantación y pujanza.
Para otros y acudiendo a esas mismas fuentes no es una obligación, pues según sostienen en las nueve ocasiones que el texto sagrado menciona el velo, no lo identifica con una parte de la indumentaria femenina, dicen que alude a un cortinaje que sirve para separación del espacio público del privado o al “jimar”, tela que tapa el escote. Y Muhammad (Sas) no quiso decir nada concluyente, entendiendo esta omisión como una forma de admitir un espacio para el criterio personal otra de las fuente del derecho islámico.
Y otras posturas minoritarias, consideran el debate sino innecesario si claramente irresoluble, creen que debe de prevalecer el principio de la no imposición en las cuestiones religiosas, según recoge un versículo del Corán, que recomienda la modestia y el pudor a la hora de vestir, para lo cual el hiyab tiene utilidad, pero sin hacer como algunos pretende una elección del vestuario para el hombre y tampoco para la mujer. Esta tendencia reclama la aceptación de todas las posiciones y dejar la elección a las protagonistas, pues las convicciones espirituales sólo son verdaderas y perduran cuando nacen de una aceptación voluntaria.
Los países musulmanes no conforman un bloque monolítico, ni está cuestión ni en muchas otras. Así Arabia, Irán imponen, persiguen e incriminan su no uso, otros lo prohíben en los espacios públicos y lo aceptan en el ámbito privado como es el caso de Túnez y muchos callan o nada dicen al respecto. Algo similar sucede con Francia comparada con Reino Unido y España, aquí se produce una coincidencia invertida; Francia, la cuna de las libertades y del laicismo escoge una regulación coactiva al igual que Arabia o Irán países clasificados como conservadores o abiertamente reaccionarios. Son coactivas cada a una a su manera por el simple hecho de ignorar e infringir, los derechos a la identidad personal y religiosa conformadores entres otros de la Declaración Universal de los Derechos Humanos.
Cuando Occidente señoreaba las tierras del Islam, le perturbaba el velo pues le atribuía la cualidad mágica de hacer las mujeres invisibles, insondables y misteriosas. Algo preocupante, pues para el colonizador en las mujeres musulmanas radicaba la preservación de las esencias y la transmisión a los hijos del Islam.
Desde hace unos cuantos años es la visibilidad de la mujer musulmana que recorre las calles tocada con el velo, el motivo de malestar, pues en ocasiones se interpreta como un desafío, una reivindicación identitaria y también como una señal rechazo a la integración. Estas ideas favorecen la reacción; más velos y una tendencia a cerrarse, replegar los puentes, los caminos de ida y vuelta que no deben de quedar cerrados.
La redefinición de conceptos como la integración es urgente, ya no puede desarrollarse bajo los mismos principios vigentes en la época colonial, cuando la ocupación de la tierra no era compatible con la independencia de las personas. Era necesario entonces, un esfuerzo destinado a pulir las diferencias, impedir las reservas a la imitación ciega del ocupante y a la aceptación complaciente de sus costumbres y pensamientos.
Es palpable que aún subsisten en mayor o menor medida algunos de estos trasnochados resabios, que distorsionan la percepción de velo reducido a un símbolo que lleva parejo, la aceptación de la opresión femenina y todas las cualidades retrógradas que estemos dispuestos atribuirle.
Las musulmanas dicen que hay tantas razones para llevar un velo, como cada una de las mujeres que lo usa, así que considerar que una musulmana tiene ideas avanzadas si se desprende del velo y que están subyugadas si lo lleva, es una deducción cierta en algunos caso, pero no deja de ser simplista entendida como generalidad.
Son muchas las musulmanas que valoran el de forma positiva las sociedades occidentales, reconocen sin reparos el avance y progreso de los derechos de la mujer y aducen esta circunstancia como esencial a la hora de vivir en España o países equiparables en este sentido.
Fue ayer en la acera de un colegio público, un grupo de mujeres musulmanas acaban de dejar sus hijos en el colegio, unas cubrían sus cabezas con el hiyab (velo) y otras no, hablaban y reían con las madres españolas de las cosas de sus hijos. Una monja clarisa de un convento cercano, bajaba la calle y al llegar a la altura del grupo se paró y las besó a todas. Las dejé allí con esa fraternidad elemental que tan fácil resulta a las mujeres y tanto cuesta a los hombres.
Esta escena no es una invención y supongo que situaciones similares se repiten en este país a diario, la convivencia no es tan imposible como algunos vaticinan ni tan fácil como otros desearíamos, pero por ahora sigue siendo posible.
* Abogado, periodista y musulmán (Imán de la Comunidad Musulmana Almedina)
(Sas) Puede ser traducido como paz y bendiciones para Muhammad
AL-ANDALUS, CONJUNCIÓN DE CULTURAS, Rodolfo Gil Benumeya Grimau
Fonte:
http://identidadandaluza.wordpress.com/2009/12/15/al-andalus-conjuncion-de-culturas/
En cierto modo, estas ideas vienen a continuar y a insistir en otras de trabajos míos anteriores, igualmente reflexivos , en torno al ‘hecho andalusí’ en alguno de los momentos de su historia. Parece evidente considerar que el hecho andalusí no fue uno e igual en sus épocas sucesivas, desde aquellas de esplendor político y administrativo a las de decadencia brillante, a su final granadino, o a toda la resaca que dejó tras de sí en la época morisca. Dicho esto, que es obvio, convendría seguir explorando cuales pudieron ser las acciones y reacciones que tuvo la sociedad andalusí, en esas diversas épocas, tanto de cara al interior de sí misma como frente al exterior, sujeta a los diversos estímulos que la constituían y que la rodeaban.
Al-Andalus -es decir la parte de Península Ibérica islámica que tuvo una extensión variable según las épocas- fue el resultado de una dialéctica, el producto de unos largos siglos de acción y reacción internas. El fenómeno de Al-Andalus es el de una arabización y una islamización cultural y religiosa, pero no étnica en buena medida. La arabización y la islamización se hicieron sobre amplios fondos de población civilizada, en su sentido etimológico, urbana y rural procedentes de la capa hispanorromana anterior, con elementos visigodos añadidos Es patente que el establecimiento de la población árabe fue importante, no sólo a través de sus entradas militares, que fueron decisivas, sino también de una manera continuada, emigratoria, comercial y pacífica, de colonización. Pero esto no quita para tener presente que la población anterior fue la que se islamizó y la que en buena parte se arabizó, o, por lo menos, la que permaneció dentro de la estructura política y administrativa árabe con todas sus consecuencias. Y esa población fue el esqueleto de Al Andalus y, en algún sentido, el de la Hispania cristiana conforme ésta se fue creando.
Al Andalus se presenta siempre como un fenómeno especial, distinto a los comunes. Al-Andalus fue visto al principio, por los árabes orientales, como “el lejano ocaso, el lejano oeste”, la tina hamqa, la tierra inepta como la llama Al- Ğāhiz. Los viajeros árabes se asombran de los usos y costumbres de esa tierra y de que los musulmanes sigan procedimientos y modas, por ejemplo militares, propios de los cristianos europeos. La literatura producida por los escritores andalusíes les parece de poca monta, excepto en casos extraordinarios que les causan asombro.
Estos estímulos negativos produjeron, en los comienzos, una reacción imitativa y subordinada en el hombre andalusí.
Este al que yo llamo ‘hombre andalusí’ era -como es sabido- una mezcla muy reciente de los inmigrantes árabes, que habían venido con todos aquellos prejuicios, de los bereberes, sus compañeros de cultura amazigh, y de las poblaciones mal arabizadas que procedían del fondo hispanorromano y godo; junto con las poblaciones judías. El hombre andalusí reaccionó, adaptándose a los modelos orientales, plegándose a ellos como ejemplos ideales del buen hacer y del buen decir, superando sus propias contradicciones de amalgama.
Sin embargo, también a partir del Califato y durante el siglo XI sobre todo, la reacción frente al complejo imitativo tomó el signo contrario. Fue seguramente la reforma .educativa, impulsada particularmente por ‘Abd Al-Rahmān III y sus sucesores, la que -al dar “una total preponderancia a la buena enseñanza de la lengua árabe” para obtener los cargos de la Administración- proporcionó a los intelectuales andalusíes una seguridad en sí mismos en cuanto a su cultura árabe y, por consiguiente, un podium para realzar su propia valía. Y esto ocurrió tanto entre los musulmanes, como entre los judíos y los cristianos arabizados, creando con esto el esquema de lo que después se iría a centrar en un modelo imaginario, que es el ‘paraíso andalusí’, incluyendo a Sefarad, no menos imaginaria en muchas vertientes.
Si algo tuvo Al-Andalus de edad dorada y de modelo, obedeció, sin duda, a su mestizaje, a la conjunción de sus diferencias. Al-Andalus era un producto híbrido. La pluralidad interna que siempre han tenido las Españas, unida, en aquellas épocas, a una pluralidad de religiones, tres en concreto, tuvo como consecuencia un producto cohesionado, gracias, tal vez, a que sus tensiones fueron cuerdamente resueltas -y regidas- a lo largo de bastante tiempo. Indudablemente no se trató de un paraíso, excepto en el recuerdo del bien perdido que todo lo hermosea, sino de una aplicación continuada de una idea de estado -durante la época omeya- de un equilibrio, y de la comprensión de unas gentes las unas para las otras. Duró lo que duró, y su ejemplo, no solamente su recuerdo, quedó como modelo de lo que es deseable. Pero fue un espacio plural interno, una alternativa de entendimiento básicamente hispana con ropaje semítico, particularmente árabe, que reproducía, en pequeño, intentos aglutinadores anteriores -como más inmediato el del califato de Damasco- y en donde lo foráneo, es decir lo europeo y lo africano, fue la principal causa de su disgregación y de su destrucción.
Una vez rotos los equilibrios y enfrentadas las tensiones, la edad dorada desapareció y la nostalgia la fue convirtiendo en paraíso, incluso en arquetipo.
Algo que salta a la vista -en inmediata relación con los particularismos de determinadas ciudades y regiones, y con los vínculos internos del fondo muladí, mozárabe y cristiano independiente- son, no obstante, los orígenes de la población hispanorromana sobre los que se asentaron la arabización y el islam. La mitad sur y el sudeste penínsulares habían sido la cuna de las grandes culturas prerromanas, en particular la tartesia o turdetana, a las que se habían sumado las aportaciones fenicia, griega y púnica. El interior de la Península tuvo otras culturas, muy homogéneas, en inmediato y continuo contacto con aquellas y con los mundos sociales y políticos mediterráneos. La romanización dio una cobertura homologada a todo, sin que por ello debamos pensar que sustituyó a todo, excepto en la lengua y, probablemente, en una conciencia de comunidad cultural imbricada con la pluralidad básica. La romanización, que tenía mucho de oriental en sí misma, continuó durante unos años con la bizantinización del sur peninsular. Y a una, y a otra, vino a completar, que no a suplir, la arabización, que era otra hija de la romanización en buena parte y que había bebido en las mismas fuentes.
Lo godo dentro de Al-Andalus se juntó con lo hispanorromano, imbricado, como ya estaba, con el fondo hispano durante los últimos tiempos de la monarquía visigoda; y lo judío ya estuvo presente durante el período de la romanización -traído por ella o procedente de épocas prerromanas- con lo cual el conjunto quedó completado, formando ese fondo del que venimos hablando. El ‘nacionalismo’ andalusí, basado en este fondo, es lo que pudo manifestarse durante el Califato, durante la propia división de las Taifas, en los reinos cristianos peninsulares del momento, e incluso en lo que nos quedó de Al- Andalus para la época moderna.
La reforma administrativa y educativa, emprendida por ‘Abd al-Rahmān III y sus sucesores, junto con el peso de una nueva clase social, la de los libertos, ajena a las familias tradicionales árabes y a su poder, hizo que la preponderancia política de estas familias se viera muy disminuida, igualada prácticamente por los andalusíes del fondo hispanorromano, por los propios saqãliba o libertos y por algunos bereberes. Lo andalusí pasó a ser fundamentalmente andalusí, de forma árabe pero no de importación. Creo que esto ya se venía dando desde hacía mucho tiempo, pero probablemente fue el concepto de estado integrador omeya lo que precipitó el fenómeno, junto con la voluntad y el ejemplo de los mismos grandes califas. El concepto de estado integrador e igualador sobrevivió a la caída política del Califato, y todos los régulos de Taifas quisieron mirarse en él y en cierto modo considerarse unos meros representantes suyos, los virreyes de un califa ausente, más que sus sucesores siempre locales.
Los almorávides, que vinieron del Magreb a partir de la fitna califal, fracasaron en la Península, pese a la decisiva influencia andalusí dentro de sus modos y Administración prolongada y aumentada con los almohades, porque no vinculaban todas las contradicciones internas peninsulares frente al exterior; sino que ellos eran el exterior. Lo que la sociedad de la Península necesitaba era un Estado atípico, al estilo del que había empezado a formarse bajo el Califato. Alfonso VI y Alfonso VII pretendieron rehacerlo bajo una forma cristiana y más feudalizada; Alfonso X y, más tarde, Pedro I, incluso los Trastámara, oscilaron en lo mismo; y esto sólo entre los reyes de Castilla-León. Su modelo y su pensamiento fueron en buena parte los de un estado integrador, común a todos los hispanos, cristianos, musulmanes y judíos, con sus personalidades y sus culturas a cuestas. Se trataba de un modelo peninsular.
A fortalecer este modelo vinieron a juntarse los mozárabes, o sea los cristianos andalusíes arabizados, los musta’rib-musta’aribīn, que habían ocupado todo tipo de cargos públicos, con libertad de culto, e incluso responsabilidades militares, antes, durante e incluso después del Califato muy en contacto con los cristianos independientes de los reinos del norte, y con los muladíes o antiguos cristianos hispanorromanos o visigodos como ellos mismos pero islamizados. Los mozárabes perdieron peso y fuerza con la entrada de los almorávides, y buena parte de ellos emigró a los reinos cristianos.
Es de todos sabido que el Islam ve a los judíos y a los cristianos como los Hombres del Libro, la Torah y el ́Inğīl o Nuevo Testamento, o sea la Biblia, sagradas escrituras como el Corán; y en consecuencia con plena potestad de ejercer sus religiones. En la época califal de Al-Andalus tuvieron esta libertad bajo la autoridad de sus rabinos y de sus obispos. Protegidos bajo el estatuto de ‘dimmíes’, pagaban únicamente unos determinados tributos y ejercían, como he dicho antes, toda clase de profesiones, cargos e instituciones, así como poseían sus sinagogas e iglesias. Evidentemente todo esto continuó en el periodo de los llamados Reinos de Taifas –ṭawā’if- e inmediatamente antes, durante la complicada caída del Califato y su división que se pretendía circunstancial, o sea el tiempo de la fitna, pero se produjo una brecha importante bajo la corta dominación de los almorávides del sur magrebí y mantuvo unas ciertas dificultades bajo la larga incorporación de Al-Andalus al imperio marroquí de los almohades. Los mismos almohades y sus sucesores los meriníes y wattasíes mantuvieron en Marruecos milicias mercenarias cristianas que en parte, probablemente, eran de cuño mozárabe, siendo conocidas por el genérico de Farfān, del que, transformado en nombre de familia, aún quedan personas en Fez. Mozárabe quizás fue el real y legendario co-fundador del reino de Portugal, un ricohombre de nombre Egas Móniz. Y al propio Rodrigo Díaz de Vivar se le atribuye a veces un origen mozárabe, lo que seguramente no es cierto pese a su arabización manifiesta, muy común por otra parte en muchos de los caballeros castellanos de estas épocas, como en su propio sobrino Munaya Álvar Fáñez, e incluso en los reyes.
Los mozárabes conservaron dentro del territorio musulmán y en los reinos cristianos muchas de las antiguas iglesias visigodas, y les dieron un sello propio. Construyeron otras a las que aportaron, junto con bastantes elementos innovadores, producto de su mestizaje cultural con lo árabe y musulmán, características singulares no solamente artísticas, contribuyendo a cambiar las costumbres y los modos de vivir en los reinos del norte y centro peninsulares, y manteniendo su rito religioso hasta nuestros días aunque sea de forma testimonial.
Respecto a la tercera cultura y tercera religión de Al-Andalus y de los reinos cristianos posteriores, es decir la de los judíos, presentes ya e influyentes durante el reino visigodo y la ocupación bizantina, su venida y su establecimiento en la Península Ibérica son inciertos. Según sus propias fuentes pueden haber llegado durante la época del rey Salomón hijo de David, en viajes comerciales conjuntos con los fenicios hacia Turdetania o Tartessós, Taršiš, la mencionada en el Antiguo Testamento, estableciendo colonias conjuntas. Pero es con el imperio romano y, sobre todo, después de la Diáspora, cuando los judíos parecen haber tenido una masa de población significativa y fuerte; muy ligada al pueblo hispanorromano y dotada de vínculos interactivos con las comunidades judías del norte de África procedentes de Palestina o bereberes convertidas. Durante el reino visigodo las relaciones entre la aristocracia germánica y la comunidad judía pasaron por momentos de ruptura y de persecuciones visigodas, recibiendo los judíos por lo general el apoyo de los hispanorromanos y de sus congéneres hebreos del norte de África.
En estas circunstancias el surgimiento del Islam entre los árabes –que no es sino la ‘reactualización’ árabe de la idea de Dios Único semita, por decirlo de algún modo- cambia todas las situaciones. La rápida extensión del Islam por todo el norte de África, las conversiones voluntarias masivas entre los bereberes, la autoridad y el sentido de gobierno del imperio árabe omeya de Damasco, recién estrenado, hicieron que prácticamente de pronto una idea religiosa similar a la mosaica y similar a la arriana, que había sido la religión de los visigodos hacía poco, se plantara frente a la Península Ibérica.
Los visigodos estaban divididos en una especie de guerra civil aristocrática entre los más conservadores y germánicos, y los más próximos a la población hispanorromana y a su cultura, junto con las tensiones internas que se mantenían entre los antiguos arrianos y los nuevos católicos convertidos por orden monárquica. En el momento en que se produce la entrada de los musulmanes, el rey visigodo Rodrigo representaba al bando conservador tras de la muerte del rey Vitiza, de talante contrario; y los hijos de Vitiza mantenían una rebeldía larvada, tolerada por la inseguridad de Rodrigo, que les permitía ocupar altos puestos militares y eclesiásticos en el sur y en el este de la Península.
Es pues muy verosímil que los hijos de Vitiza hayan preparado una sublevación, buscando la alianza de los musulmanes establecidos al otro lado del Estrecho y que lo hayan hecho a través de las comunidades judías de la Península y del norte de África, y de sus propios partidarios y dignatarios de origen bereber, como el conde Olián –el don Julián de las leyendas y romances- gobernador visigodo de Tánger.
La batalla de Guadalete o de la Janda es más bien un choque entre visigodos, puesto que las fuerzas mandadas por los hijos de Vitiza se revolvieron contra Rodrigo auxiliadas por los musulmanes desembarcados hacía poco. Las ciudades fueron cayendo rápidamente unas tras otras y, conforme avanzaba el ejército vencedor, tropas judías se encargaban del cuidado y defensa de las plazas. Ya sabemos que el planteamiento inicial cambió y que fue el Islam, tras de esta nueva expansión tan fácil y en cierto modo tan compenetrada con judíos, hispanorromanos y una amplia parte de los visigodos, el que estableció su gobierno, dando lugar a Al-Andalus. Muchos visigodos y muchos hispanorromanos se fueron haciendo musulmanes, y se les llamó muladíes, otros mantuvieron su cristianismo y se arabizaron paulatinamente dando lugar a los mozárabes que hemos visto. Los judíos quedaron también bajo el gobierno árabe, primero dependiente de Damasco, luego independiente con el Emirato y Califato omeyas, las Taifas, los imperios almorávide y almohade y el reino de Granada. Toda la vida de Al-Andalus. Para ellos, toda la vida de Sefarad.
Sefarad –Al-Andalus judío- fue probablemente la mejor época y más fructífera de la dispersión hebrea de la Diáspora. Los sefardíes destacaron en todo, ocuparon los más altos cargos, cultivaron la mística, la ciencia, la medicina, la filosofía, la literatura; fueron primeros ministros, diplomáticos y gobernantes como Ḥasday ben Šaprūt con el califa ‘Abd al-Raḥmān III, los Ben Nagrella en el reino de Taifas de Granada, Yehudā ha-Levi en el reino cristiano pero arabizado de Castilla… Y por supuesto el cordobés Mošē ben Maymōn, Maimónides, filósofo y médico universal del periodo almohade, entre una pléyade de ingenios de todo tipo.
He hablado de la arabización lingüística y cultural de la época omeya y a partir de ella, pero sabemos que existía un bilingüismo coloquial: la gente hablaba también en dialectos romances, incluso la nobleza de origen y cuño árabes, cantaba en ellos, y denominaba muchas cosas de la vida diaria en ellos; y en ellos se entendía con los cristianos del norte, bastantes de los cuales, a su vez, hablaban y leían árabe. Es muy posible que estas hablas romances y una inter-lingua árabe coloquial se hayan mantenido hasta tiempos muy avanzados, cosa que se empieza a estudiar.
Todas estas muestras de mezcla -mezcla de razas, mezcla de lenguas y, de culturas- esa adaptación, apropiación y en cierta medida ‘nacionalismo’, son las que caracterizan el fenómeno andalusí y que contrarían las corrientes procedentes de Europa, resistiendo también a las corrientes reformadoras islámicas del Magreb, y manteniendo el fenómeno andalusí incluso durante la Baja Edad Media. Las circunstancias de la mezcla son las que configuran a Al-Andalus como tal y las que caracterizan, a su vez, a los mismos reinos cristianos vecinos -parientes, aliados y enemigos- en una dinámica que transciende, a mi juicio, la meramente defensiva u ofensiva de las fronteras móviles. Unos reinos cristianos que, a pesar de las influencias feudales europeas, más patentes en unos que en otros, son algo especial, distinto y propio de cohabitación, por expresarlo de alguna manera. El espíritu andalusí, por cuanto parece haber nacido y crecido más que nada en Al-Andalus, habría pasado a los reinos cristianos no sólo a partir de los condados fronterizos y primitivos reinos cristianos, sino también por el propio entramado étnico interno.
Los reinos cristianos peninsulares me parecen, igual que el mismo Al-Andalus, un hecho diferencial. La continua inclinación de los monarcas por el asentamiento urbano obedece, por supuesto, a una compensación del poder real frente al poder de la nobleza, y a la repoblación, pero también a una continuación en el uso de modelos que venían de Al-Andalus La especial protección que los monarcas cristianos peninsulares dieron a sus súbditos musulmanes y judíos no era la habitual en Europa. Por el contrario, durante la presencia de cruzados europeos en las guerras peninsulares, los reyes se esforzaron, a veces de manera impositiva, en proteger a aquellos súbditos de las depredaciones a las que querían someterles los cruzados, por considerarlas naturales en Europa, y en unas guerras que ellos creían de religión y expolio por lo menos en parte.
No hay nada más diferente del cumplimiento de las Capitulaciones, que los reyes cristianos peninsulares pactaban con las ciudades islámicas que iban conquistando, que la toma, saqueo y genocidio obrados por los cruzados en Barbastro, por ejemplo. Ni era habitual en Europa que hubiera consejeros y altos cargos judíos y musulmanes, o tropas islámicas, al servicio de los reyes cristianos y estados peninsulares, como ocurrió hasta el final de los Trastámara anteriores a los Reyes Católicos.
Conforme los grandes reinos cristianos fueron ocupando territorios musulmanes de Al-Andalus –a partir más o menos de la conquista de Toledo en 1085 por Alfonso VI- el sistema de Capitulaciones del que hemos hablado se generaliza. La población musulmana que queda bajo dominio político cristiano pacta unas condiciones de libertad religiosa, libertad de jurisdicción, usos y costumbres, que la transforma en mudağğan –sometida- de donde viene el término ‘mudéjar’. Esto ocurre durante varios siglos con alternativas que son normalmente de diálogo y de convivencia mutuos, a veces de diferencias, hasta que, después de la conquista del Reino de Granada por los Reyes Católicos, la parte cristiana rompe de forma represiva y expoliadora las Capitulaciones y, a partir del cardenal Jiménez de Cisneros, obliga a los mudéjares –los antiguos y los nuevos- a convertirse al catolicismo masivamente y por la fuerza o a emigrar, al tiempo que se destruyen sus libros y su civilización . Los judíos sefardíes ya habían sido obligados a lo mismo, e igualmente expoliados, unos años antes por los propios Reyes Católicos.
Sin embargo, era tal la fuerza de lo andalusí en muchas de las manifestaciones normales del pueblo español, que lo que se acostumbra a llamar arte mudéjar y mudejarismo se desarrolla de modo espléndido desde el siglo XIII, más o menos, hasta el XVI, y en la América hispana hasta el XIX, sobre todo en arquitectura. Lo mudéjar puede considerarse como la gran aportación española al arte arquitectónico universal y a las formas y estilos del arte de la construcción. Incluso, a finales del XIX y en pleno siglo XX se produce una reactualización neomudéjar en varias partes de España, y algunas de sus características persisten por típicamente españolas hoy en día.
La convivencia y el debate, en definitiva el diálogo, han sido durante siglos un patrimonio característico de la sociedad española y, en general, de la sociedad peninsular. Nuestros grupos humanos crearon modelos que fueron ensayados, estilos que se entremezclaron, savias que acertaron a dar animación a un fruto común de tan amplio legado como Al-Andalus, uno, vario y persistente. Desgraciadamente, habiendo sido conquistado el Reino de Granada, comienza un complicado y difícil tiempo para España en su conjunto y para los españoles musulmanes en particular. Es la época de los moriscos, de su literatura aljamiada, de las persecuciones, la presión y el esquilmo. Persecución y esquilmo no sólo contra los musulmanes, sino contra los conversos y los erasmistas, los luteranos, etc., considerados todos como herejes y dignos sujetos de muerte o expulsión.
A partir de las conversiones forzosas de los mudéjares empiezan los moriscos.
El sentimiento morisco, aunque diferencial –como ya he dicho varias veces- es esencialmente español, pero musulmán. Los moriscos son la última parte de Al-Andalus, sus últimas manifestaciones vivas que no terminaron con la caída del Reino de Granada, sino que se continuaron con la actividad de unas gentes dispersadas a la fuerza fuera de la Península Ibérica, o presentes dentro de ella de una forma más bien callada. Como es sabido, los moriscos adoptaron la resistencia pasiva de cara a las Autoridades gubernamentales y católicas, usando varias veces del pago de dinero a la Corona y a otras jerarquías. Emplearon la ṭaqiyya u ocultación de la fe frente a la persecución católica, método autorizado a través de fetuas o dictámenes religiosos dados por ulemas del norte de África. Usaron del sincretismo religioso y de la intoxicación como es el caso de los libros plúmbeos del Sacromonte. Y enviaron escritos muy razonados y de gran altura política, incluso con vigencia actual, como la carta del príncipe Nuñez Muley a las mayores autoridades cristianas.
Pero además buscaron la protección de la nobleza acristianada de origen morisco o de alguna nobleza cristiana-vieja, y de parte de la Iglesia, interesadas en que no abandonaran sus tierras y profesiones y dejaran de producir riqueza. Recurrieron abundantemente a la conservación de la fe a través de la fórmula mixta de propagación que era la literatura aljamiada. Trabajaron mucho y procuraron capitalizarse y crecer en población… Se agruparon en forma de cofradías dedicadas al culto de la Virgen y de Jesús, personajes ambos reverenciados en El Corán. Hicieron proliferar vaticinios de esperanza que auguraban la vuelta de los tiempos anteriores…
De otro lado, sin embargo, mantuvieron vínculos constantes y fáciles con el Magreb, también con el imperio Otomano y con varios países europeos, como Francia, Alemania, Italia y Portugal evidentemente. En muchas circunstancias y momentos, “se echaron al monte”, como se dice en español castizo, formando partidas de guerrilleros que mantenían una lucha viva aunque cruel, sobre todo en el reino de Valencia y en el de Granada. Y se sublevaron varias veces. La más importante y conocida de estas sublevaciones es la que dio lugar a la Guerra y reino de las Alpujarras, muy dura y muy difícil, con varios miembros de la familia omeya a la cabeza.
En los primeros años del siglo XVII -no sin bastantes resistencias interiores de algún sector de la nobleza e incluso de personajes y estamentos eclesiásticos- la Corte de Madrid promulgó el decreto de expulsión de los moriscos, que fueron obligados a quitar su patria y a dirigirse sobre todo hacia el Magreb. Recientemente se han analizado varios vectores de la política de los Austrias respecto a los moriscos y las oscilaciones de esta política, sus causas internas y externas, y de ello se deduce que la división de criterios fue patente. Y también se ha analizado la participación de profesionales moriscos en episodios de la vida peninsular como la Armada Invencible, y en la derrota del rey don Sebastián de Portugal en Marruecos, o de la vida africana subsahariana como en la conquista de Tombuctú y en las huellas étnicas y culturales que dejaron allí hasta ahora.
Los moriscos crearon e hicieron funcionar durante más de medio siglo el Estado morisco de Salé la Vieja, en Rabat, una nueva patria con relaciones internacionales europeas y con la misma España e Felipe IV. Otras nuevas patrias hubo en Tetuán, en Chauen, en Tremecén, en Túnez, patrias adoptivas.
No todos se fueron al Magreb, sin embargo. Hubo una emigración fuerte, no cuantificada hasta ahora, al imperio Otomano, lo mismo que habían hecho muchos sefardíes.
La Civilización que queremos vivir nos lleva a un mundo global y es simplemente la suma y la mezcla de las civilizaciones. No puede haber choque de civilizaciones y de hecho nunca lo ha habido, sino interpenetraciones o amalgamas. Al-Andalus es un claro ejemplo de un proceso así, y lo ha sido el propio continente americano. No hay choque de civilizaciones sino desconocimiento y el desconocimiento es disoluble con el tiempo, con la enseñanza en unos y en otros, con la comunidad de intereses y con el diálogo.
Todo lo cual se resume en la necesidad imprescindible de una información cierta, de una traducción cierta de conceptos dada con una terminología lúcida, sin seguir empeñándonos en añadir veladuras y viendo lo poco que hacemos por favorecer nuestras semejanzas y lo mucho que hacemos por reanimar nuestras diferencias con otros países y otras vertientes de la fe. Esto último es el analfabetismo histórico-cultural que practican hueca y presuntuosamente algunos políticos y algunos religiosos de varias tendencias, en lugar de ser responsables ante la verdad, de revalorizar la política o la religión y de enseñar a la calle.
La “alianza de civilizaciones” que preconizan España y Naciones Unidas, no es sólo un abrazo sino que también representa la alianza de los egoísmos bien concebidos porque son los de la supervivencia, los del desarrollo, como he dicho, y del enriquecimiento de los valores aprendidos o heredados los unos de los otros. Es la convivencia en la diversidad, en donde no cabe más enfrentamiento que el de la palabra y por esto esa palabra tiene que ser veraz, útil, clara, bien vertida de unas lenguas a otras; es decir, la propia del concepto que se quiere expresar y por la que se pretende entender a los otros, ser entendido e informar. Un tesoro a compartir, si cabe, entre Sancho Panza y su amigo y vecino el morisco Ricote.
Al-Andalus fue el resultado de una polémica razonada y vivida, de una conversación continuada y de la traducción correcta de los intereses propios; y es por eso que ha quedado como paradigma ideal para muchos pueblos y modelo eventualmente readaptable.
La “alianza de civilizaciones”, que mencionaba antes, es una continuación de este arquetipo pero proyectado a lo largo y ancho de este mundo global y visto como deseable esquema de futuro para todos.
En principio, el esquema deseable se basa en dos realidades: la del entendimiento de los pueblos y, por añadidura, el acuerdo y el equilibrio de sus gobiernos, sus economías, sus políticas y sus diplomacias; y la de las minorías de sentimiento compartido, que de momento son minorías pero que van creciendo y es de esperar que se difundan mucho más rápida, y eficaz.
http://identidadandaluza.wordpress.com/2009/12/15/al-andalus-conjuncion-de-culturas/
En cierto modo, estas ideas vienen a continuar y a insistir en otras de trabajos míos anteriores, igualmente reflexivos , en torno al ‘hecho andalusí’ en alguno de los momentos de su historia. Parece evidente considerar que el hecho andalusí no fue uno e igual en sus épocas sucesivas, desde aquellas de esplendor político y administrativo a las de decadencia brillante, a su final granadino, o a toda la resaca que dejó tras de sí en la época morisca. Dicho esto, que es obvio, convendría seguir explorando cuales pudieron ser las acciones y reacciones que tuvo la sociedad andalusí, en esas diversas épocas, tanto de cara al interior de sí misma como frente al exterior, sujeta a los diversos estímulos que la constituían y que la rodeaban.
Al-Andalus -es decir la parte de Península Ibérica islámica que tuvo una extensión variable según las épocas- fue el resultado de una dialéctica, el producto de unos largos siglos de acción y reacción internas. El fenómeno de Al-Andalus es el de una arabización y una islamización cultural y religiosa, pero no étnica en buena medida. La arabización y la islamización se hicieron sobre amplios fondos de población civilizada, en su sentido etimológico, urbana y rural procedentes de la capa hispanorromana anterior, con elementos visigodos añadidos Es patente que el establecimiento de la población árabe fue importante, no sólo a través de sus entradas militares, que fueron decisivas, sino también de una manera continuada, emigratoria, comercial y pacífica, de colonización. Pero esto no quita para tener presente que la población anterior fue la que se islamizó y la que en buena parte se arabizó, o, por lo menos, la que permaneció dentro de la estructura política y administrativa árabe con todas sus consecuencias. Y esa población fue el esqueleto de Al Andalus y, en algún sentido, el de la Hispania cristiana conforme ésta se fue creando.
Al Andalus se presenta siempre como un fenómeno especial, distinto a los comunes. Al-Andalus fue visto al principio, por los árabes orientales, como “el lejano ocaso, el lejano oeste”, la tina hamqa, la tierra inepta como la llama Al- Ğāhiz. Los viajeros árabes se asombran de los usos y costumbres de esa tierra y de que los musulmanes sigan procedimientos y modas, por ejemplo militares, propios de los cristianos europeos. La literatura producida por los escritores andalusíes les parece de poca monta, excepto en casos extraordinarios que les causan asombro.
Estos estímulos negativos produjeron, en los comienzos, una reacción imitativa y subordinada en el hombre andalusí.
Este al que yo llamo ‘hombre andalusí’ era -como es sabido- una mezcla muy reciente de los inmigrantes árabes, que habían venido con todos aquellos prejuicios, de los bereberes, sus compañeros de cultura amazigh, y de las poblaciones mal arabizadas que procedían del fondo hispanorromano y godo; junto con las poblaciones judías. El hombre andalusí reaccionó, adaptándose a los modelos orientales, plegándose a ellos como ejemplos ideales del buen hacer y del buen decir, superando sus propias contradicciones de amalgama.
Sin embargo, también a partir del Califato y durante el siglo XI sobre todo, la reacción frente al complejo imitativo tomó el signo contrario. Fue seguramente la reforma .educativa, impulsada particularmente por ‘Abd Al-Rahmān III y sus sucesores, la que -al dar “una total preponderancia a la buena enseñanza de la lengua árabe” para obtener los cargos de la Administración- proporcionó a los intelectuales andalusíes una seguridad en sí mismos en cuanto a su cultura árabe y, por consiguiente, un podium para realzar su propia valía. Y esto ocurrió tanto entre los musulmanes, como entre los judíos y los cristianos arabizados, creando con esto el esquema de lo que después se iría a centrar en un modelo imaginario, que es el ‘paraíso andalusí’, incluyendo a Sefarad, no menos imaginaria en muchas vertientes.
Si algo tuvo Al-Andalus de edad dorada y de modelo, obedeció, sin duda, a su mestizaje, a la conjunción de sus diferencias. Al-Andalus era un producto híbrido. La pluralidad interna que siempre han tenido las Españas, unida, en aquellas épocas, a una pluralidad de religiones, tres en concreto, tuvo como consecuencia un producto cohesionado, gracias, tal vez, a que sus tensiones fueron cuerdamente resueltas -y regidas- a lo largo de bastante tiempo. Indudablemente no se trató de un paraíso, excepto en el recuerdo del bien perdido que todo lo hermosea, sino de una aplicación continuada de una idea de estado -durante la época omeya- de un equilibrio, y de la comprensión de unas gentes las unas para las otras. Duró lo que duró, y su ejemplo, no solamente su recuerdo, quedó como modelo de lo que es deseable. Pero fue un espacio plural interno, una alternativa de entendimiento básicamente hispana con ropaje semítico, particularmente árabe, que reproducía, en pequeño, intentos aglutinadores anteriores -como más inmediato el del califato de Damasco- y en donde lo foráneo, es decir lo europeo y lo africano, fue la principal causa de su disgregación y de su destrucción.
Una vez rotos los equilibrios y enfrentadas las tensiones, la edad dorada desapareció y la nostalgia la fue convirtiendo en paraíso, incluso en arquetipo.
Algo que salta a la vista -en inmediata relación con los particularismos de determinadas ciudades y regiones, y con los vínculos internos del fondo muladí, mozárabe y cristiano independiente- son, no obstante, los orígenes de la población hispanorromana sobre los que se asentaron la arabización y el islam. La mitad sur y el sudeste penínsulares habían sido la cuna de las grandes culturas prerromanas, en particular la tartesia o turdetana, a las que se habían sumado las aportaciones fenicia, griega y púnica. El interior de la Península tuvo otras culturas, muy homogéneas, en inmediato y continuo contacto con aquellas y con los mundos sociales y políticos mediterráneos. La romanización dio una cobertura homologada a todo, sin que por ello debamos pensar que sustituyó a todo, excepto en la lengua y, probablemente, en una conciencia de comunidad cultural imbricada con la pluralidad básica. La romanización, que tenía mucho de oriental en sí misma, continuó durante unos años con la bizantinización del sur peninsular. Y a una, y a otra, vino a completar, que no a suplir, la arabización, que era otra hija de la romanización en buena parte y que había bebido en las mismas fuentes.
Lo godo dentro de Al-Andalus se juntó con lo hispanorromano, imbricado, como ya estaba, con el fondo hispano durante los últimos tiempos de la monarquía visigoda; y lo judío ya estuvo presente durante el período de la romanización -traído por ella o procedente de épocas prerromanas- con lo cual el conjunto quedó completado, formando ese fondo del que venimos hablando. El ‘nacionalismo’ andalusí, basado en este fondo, es lo que pudo manifestarse durante el Califato, durante la propia división de las Taifas, en los reinos cristianos peninsulares del momento, e incluso en lo que nos quedó de Al- Andalus para la época moderna.
La reforma administrativa y educativa, emprendida por ‘Abd al-Rahmān III y sus sucesores, junto con el peso de una nueva clase social, la de los libertos, ajena a las familias tradicionales árabes y a su poder, hizo que la preponderancia política de estas familias se viera muy disminuida, igualada prácticamente por los andalusíes del fondo hispanorromano, por los propios saqãliba o libertos y por algunos bereberes. Lo andalusí pasó a ser fundamentalmente andalusí, de forma árabe pero no de importación. Creo que esto ya se venía dando desde hacía mucho tiempo, pero probablemente fue el concepto de estado integrador omeya lo que precipitó el fenómeno, junto con la voluntad y el ejemplo de los mismos grandes califas. El concepto de estado integrador e igualador sobrevivió a la caída política del Califato, y todos los régulos de Taifas quisieron mirarse en él y en cierto modo considerarse unos meros representantes suyos, los virreyes de un califa ausente, más que sus sucesores siempre locales.
Los almorávides, que vinieron del Magreb a partir de la fitna califal, fracasaron en la Península, pese a la decisiva influencia andalusí dentro de sus modos y Administración prolongada y aumentada con los almohades, porque no vinculaban todas las contradicciones internas peninsulares frente al exterior; sino que ellos eran el exterior. Lo que la sociedad de la Península necesitaba era un Estado atípico, al estilo del que había empezado a formarse bajo el Califato. Alfonso VI y Alfonso VII pretendieron rehacerlo bajo una forma cristiana y más feudalizada; Alfonso X y, más tarde, Pedro I, incluso los Trastámara, oscilaron en lo mismo; y esto sólo entre los reyes de Castilla-León. Su modelo y su pensamiento fueron en buena parte los de un estado integrador, común a todos los hispanos, cristianos, musulmanes y judíos, con sus personalidades y sus culturas a cuestas. Se trataba de un modelo peninsular.
A fortalecer este modelo vinieron a juntarse los mozárabes, o sea los cristianos andalusíes arabizados, los musta’rib-musta’aribīn, que habían ocupado todo tipo de cargos públicos, con libertad de culto, e incluso responsabilidades militares, antes, durante e incluso después del Califato muy en contacto con los cristianos independientes de los reinos del norte, y con los muladíes o antiguos cristianos hispanorromanos o visigodos como ellos mismos pero islamizados. Los mozárabes perdieron peso y fuerza con la entrada de los almorávides, y buena parte de ellos emigró a los reinos cristianos.
Es de todos sabido que el Islam ve a los judíos y a los cristianos como los Hombres del Libro, la Torah y el ́Inğīl o Nuevo Testamento, o sea la Biblia, sagradas escrituras como el Corán; y en consecuencia con plena potestad de ejercer sus religiones. En la época califal de Al-Andalus tuvieron esta libertad bajo la autoridad de sus rabinos y de sus obispos. Protegidos bajo el estatuto de ‘dimmíes’, pagaban únicamente unos determinados tributos y ejercían, como he dicho antes, toda clase de profesiones, cargos e instituciones, así como poseían sus sinagogas e iglesias. Evidentemente todo esto continuó en el periodo de los llamados Reinos de Taifas –ṭawā’if- e inmediatamente antes, durante la complicada caída del Califato y su división que se pretendía circunstancial, o sea el tiempo de la fitna, pero se produjo una brecha importante bajo la corta dominación de los almorávides del sur magrebí y mantuvo unas ciertas dificultades bajo la larga incorporación de Al-Andalus al imperio marroquí de los almohades. Los mismos almohades y sus sucesores los meriníes y wattasíes mantuvieron en Marruecos milicias mercenarias cristianas que en parte, probablemente, eran de cuño mozárabe, siendo conocidas por el genérico de Farfān, del que, transformado en nombre de familia, aún quedan personas en Fez. Mozárabe quizás fue el real y legendario co-fundador del reino de Portugal, un ricohombre de nombre Egas Móniz. Y al propio Rodrigo Díaz de Vivar se le atribuye a veces un origen mozárabe, lo que seguramente no es cierto pese a su arabización manifiesta, muy común por otra parte en muchos de los caballeros castellanos de estas épocas, como en su propio sobrino Munaya Álvar Fáñez, e incluso en los reyes.
Los mozárabes conservaron dentro del territorio musulmán y en los reinos cristianos muchas de las antiguas iglesias visigodas, y les dieron un sello propio. Construyeron otras a las que aportaron, junto con bastantes elementos innovadores, producto de su mestizaje cultural con lo árabe y musulmán, características singulares no solamente artísticas, contribuyendo a cambiar las costumbres y los modos de vivir en los reinos del norte y centro peninsulares, y manteniendo su rito religioso hasta nuestros días aunque sea de forma testimonial.
Respecto a la tercera cultura y tercera religión de Al-Andalus y de los reinos cristianos posteriores, es decir la de los judíos, presentes ya e influyentes durante el reino visigodo y la ocupación bizantina, su venida y su establecimiento en la Península Ibérica son inciertos. Según sus propias fuentes pueden haber llegado durante la época del rey Salomón hijo de David, en viajes comerciales conjuntos con los fenicios hacia Turdetania o Tartessós, Taršiš, la mencionada en el Antiguo Testamento, estableciendo colonias conjuntas. Pero es con el imperio romano y, sobre todo, después de la Diáspora, cuando los judíos parecen haber tenido una masa de población significativa y fuerte; muy ligada al pueblo hispanorromano y dotada de vínculos interactivos con las comunidades judías del norte de África procedentes de Palestina o bereberes convertidas. Durante el reino visigodo las relaciones entre la aristocracia germánica y la comunidad judía pasaron por momentos de ruptura y de persecuciones visigodas, recibiendo los judíos por lo general el apoyo de los hispanorromanos y de sus congéneres hebreos del norte de África.
En estas circunstancias el surgimiento del Islam entre los árabes –que no es sino la ‘reactualización’ árabe de la idea de Dios Único semita, por decirlo de algún modo- cambia todas las situaciones. La rápida extensión del Islam por todo el norte de África, las conversiones voluntarias masivas entre los bereberes, la autoridad y el sentido de gobierno del imperio árabe omeya de Damasco, recién estrenado, hicieron que prácticamente de pronto una idea religiosa similar a la mosaica y similar a la arriana, que había sido la religión de los visigodos hacía poco, se plantara frente a la Península Ibérica.
Los visigodos estaban divididos en una especie de guerra civil aristocrática entre los más conservadores y germánicos, y los más próximos a la población hispanorromana y a su cultura, junto con las tensiones internas que se mantenían entre los antiguos arrianos y los nuevos católicos convertidos por orden monárquica. En el momento en que se produce la entrada de los musulmanes, el rey visigodo Rodrigo representaba al bando conservador tras de la muerte del rey Vitiza, de talante contrario; y los hijos de Vitiza mantenían una rebeldía larvada, tolerada por la inseguridad de Rodrigo, que les permitía ocupar altos puestos militares y eclesiásticos en el sur y en el este de la Península.
Es pues muy verosímil que los hijos de Vitiza hayan preparado una sublevación, buscando la alianza de los musulmanes establecidos al otro lado del Estrecho y que lo hayan hecho a través de las comunidades judías de la Península y del norte de África, y de sus propios partidarios y dignatarios de origen bereber, como el conde Olián –el don Julián de las leyendas y romances- gobernador visigodo de Tánger.
La batalla de Guadalete o de la Janda es más bien un choque entre visigodos, puesto que las fuerzas mandadas por los hijos de Vitiza se revolvieron contra Rodrigo auxiliadas por los musulmanes desembarcados hacía poco. Las ciudades fueron cayendo rápidamente unas tras otras y, conforme avanzaba el ejército vencedor, tropas judías se encargaban del cuidado y defensa de las plazas. Ya sabemos que el planteamiento inicial cambió y que fue el Islam, tras de esta nueva expansión tan fácil y en cierto modo tan compenetrada con judíos, hispanorromanos y una amplia parte de los visigodos, el que estableció su gobierno, dando lugar a Al-Andalus. Muchos visigodos y muchos hispanorromanos se fueron haciendo musulmanes, y se les llamó muladíes, otros mantuvieron su cristianismo y se arabizaron paulatinamente dando lugar a los mozárabes que hemos visto. Los judíos quedaron también bajo el gobierno árabe, primero dependiente de Damasco, luego independiente con el Emirato y Califato omeyas, las Taifas, los imperios almorávide y almohade y el reino de Granada. Toda la vida de Al-Andalus. Para ellos, toda la vida de Sefarad.
Sefarad –Al-Andalus judío- fue probablemente la mejor época y más fructífera de la dispersión hebrea de la Diáspora. Los sefardíes destacaron en todo, ocuparon los más altos cargos, cultivaron la mística, la ciencia, la medicina, la filosofía, la literatura; fueron primeros ministros, diplomáticos y gobernantes como Ḥasday ben Šaprūt con el califa ‘Abd al-Raḥmān III, los Ben Nagrella en el reino de Taifas de Granada, Yehudā ha-Levi en el reino cristiano pero arabizado de Castilla… Y por supuesto el cordobés Mošē ben Maymōn, Maimónides, filósofo y médico universal del periodo almohade, entre una pléyade de ingenios de todo tipo.
He hablado de la arabización lingüística y cultural de la época omeya y a partir de ella, pero sabemos que existía un bilingüismo coloquial: la gente hablaba también en dialectos romances, incluso la nobleza de origen y cuño árabes, cantaba en ellos, y denominaba muchas cosas de la vida diaria en ellos; y en ellos se entendía con los cristianos del norte, bastantes de los cuales, a su vez, hablaban y leían árabe. Es muy posible que estas hablas romances y una inter-lingua árabe coloquial se hayan mantenido hasta tiempos muy avanzados, cosa que se empieza a estudiar.
Todas estas muestras de mezcla -mezcla de razas, mezcla de lenguas y, de culturas- esa adaptación, apropiación y en cierta medida ‘nacionalismo’, son las que caracterizan el fenómeno andalusí y que contrarían las corrientes procedentes de Europa, resistiendo también a las corrientes reformadoras islámicas del Magreb, y manteniendo el fenómeno andalusí incluso durante la Baja Edad Media. Las circunstancias de la mezcla son las que configuran a Al-Andalus como tal y las que caracterizan, a su vez, a los mismos reinos cristianos vecinos -parientes, aliados y enemigos- en una dinámica que transciende, a mi juicio, la meramente defensiva u ofensiva de las fronteras móviles. Unos reinos cristianos que, a pesar de las influencias feudales europeas, más patentes en unos que en otros, son algo especial, distinto y propio de cohabitación, por expresarlo de alguna manera. El espíritu andalusí, por cuanto parece haber nacido y crecido más que nada en Al-Andalus, habría pasado a los reinos cristianos no sólo a partir de los condados fronterizos y primitivos reinos cristianos, sino también por el propio entramado étnico interno.
Los reinos cristianos peninsulares me parecen, igual que el mismo Al-Andalus, un hecho diferencial. La continua inclinación de los monarcas por el asentamiento urbano obedece, por supuesto, a una compensación del poder real frente al poder de la nobleza, y a la repoblación, pero también a una continuación en el uso de modelos que venían de Al-Andalus La especial protección que los monarcas cristianos peninsulares dieron a sus súbditos musulmanes y judíos no era la habitual en Europa. Por el contrario, durante la presencia de cruzados europeos en las guerras peninsulares, los reyes se esforzaron, a veces de manera impositiva, en proteger a aquellos súbditos de las depredaciones a las que querían someterles los cruzados, por considerarlas naturales en Europa, y en unas guerras que ellos creían de religión y expolio por lo menos en parte.
No hay nada más diferente del cumplimiento de las Capitulaciones, que los reyes cristianos peninsulares pactaban con las ciudades islámicas que iban conquistando, que la toma, saqueo y genocidio obrados por los cruzados en Barbastro, por ejemplo. Ni era habitual en Europa que hubiera consejeros y altos cargos judíos y musulmanes, o tropas islámicas, al servicio de los reyes cristianos y estados peninsulares, como ocurrió hasta el final de los Trastámara anteriores a los Reyes Católicos.
Conforme los grandes reinos cristianos fueron ocupando territorios musulmanes de Al-Andalus –a partir más o menos de la conquista de Toledo en 1085 por Alfonso VI- el sistema de Capitulaciones del que hemos hablado se generaliza. La población musulmana que queda bajo dominio político cristiano pacta unas condiciones de libertad religiosa, libertad de jurisdicción, usos y costumbres, que la transforma en mudağğan –sometida- de donde viene el término ‘mudéjar’. Esto ocurre durante varios siglos con alternativas que son normalmente de diálogo y de convivencia mutuos, a veces de diferencias, hasta que, después de la conquista del Reino de Granada por los Reyes Católicos, la parte cristiana rompe de forma represiva y expoliadora las Capitulaciones y, a partir del cardenal Jiménez de Cisneros, obliga a los mudéjares –los antiguos y los nuevos- a convertirse al catolicismo masivamente y por la fuerza o a emigrar, al tiempo que se destruyen sus libros y su civilización . Los judíos sefardíes ya habían sido obligados a lo mismo, e igualmente expoliados, unos años antes por los propios Reyes Católicos.
Sin embargo, era tal la fuerza de lo andalusí en muchas de las manifestaciones normales del pueblo español, que lo que se acostumbra a llamar arte mudéjar y mudejarismo se desarrolla de modo espléndido desde el siglo XIII, más o menos, hasta el XVI, y en la América hispana hasta el XIX, sobre todo en arquitectura. Lo mudéjar puede considerarse como la gran aportación española al arte arquitectónico universal y a las formas y estilos del arte de la construcción. Incluso, a finales del XIX y en pleno siglo XX se produce una reactualización neomudéjar en varias partes de España, y algunas de sus características persisten por típicamente españolas hoy en día.
La convivencia y el debate, en definitiva el diálogo, han sido durante siglos un patrimonio característico de la sociedad española y, en general, de la sociedad peninsular. Nuestros grupos humanos crearon modelos que fueron ensayados, estilos que se entremezclaron, savias que acertaron a dar animación a un fruto común de tan amplio legado como Al-Andalus, uno, vario y persistente. Desgraciadamente, habiendo sido conquistado el Reino de Granada, comienza un complicado y difícil tiempo para España en su conjunto y para los españoles musulmanes en particular. Es la época de los moriscos, de su literatura aljamiada, de las persecuciones, la presión y el esquilmo. Persecución y esquilmo no sólo contra los musulmanes, sino contra los conversos y los erasmistas, los luteranos, etc., considerados todos como herejes y dignos sujetos de muerte o expulsión.
A partir de las conversiones forzosas de los mudéjares empiezan los moriscos.
El sentimiento morisco, aunque diferencial –como ya he dicho varias veces- es esencialmente español, pero musulmán. Los moriscos son la última parte de Al-Andalus, sus últimas manifestaciones vivas que no terminaron con la caída del Reino de Granada, sino que se continuaron con la actividad de unas gentes dispersadas a la fuerza fuera de la Península Ibérica, o presentes dentro de ella de una forma más bien callada. Como es sabido, los moriscos adoptaron la resistencia pasiva de cara a las Autoridades gubernamentales y católicas, usando varias veces del pago de dinero a la Corona y a otras jerarquías. Emplearon la ṭaqiyya u ocultación de la fe frente a la persecución católica, método autorizado a través de fetuas o dictámenes religiosos dados por ulemas del norte de África. Usaron del sincretismo religioso y de la intoxicación como es el caso de los libros plúmbeos del Sacromonte. Y enviaron escritos muy razonados y de gran altura política, incluso con vigencia actual, como la carta del príncipe Nuñez Muley a las mayores autoridades cristianas.
Pero además buscaron la protección de la nobleza acristianada de origen morisco o de alguna nobleza cristiana-vieja, y de parte de la Iglesia, interesadas en que no abandonaran sus tierras y profesiones y dejaran de producir riqueza. Recurrieron abundantemente a la conservación de la fe a través de la fórmula mixta de propagación que era la literatura aljamiada. Trabajaron mucho y procuraron capitalizarse y crecer en población… Se agruparon en forma de cofradías dedicadas al culto de la Virgen y de Jesús, personajes ambos reverenciados en El Corán. Hicieron proliferar vaticinios de esperanza que auguraban la vuelta de los tiempos anteriores…
De otro lado, sin embargo, mantuvieron vínculos constantes y fáciles con el Magreb, también con el imperio Otomano y con varios países europeos, como Francia, Alemania, Italia y Portugal evidentemente. En muchas circunstancias y momentos, “se echaron al monte”, como se dice en español castizo, formando partidas de guerrilleros que mantenían una lucha viva aunque cruel, sobre todo en el reino de Valencia y en el de Granada. Y se sublevaron varias veces. La más importante y conocida de estas sublevaciones es la que dio lugar a la Guerra y reino de las Alpujarras, muy dura y muy difícil, con varios miembros de la familia omeya a la cabeza.
En los primeros años del siglo XVII -no sin bastantes resistencias interiores de algún sector de la nobleza e incluso de personajes y estamentos eclesiásticos- la Corte de Madrid promulgó el decreto de expulsión de los moriscos, que fueron obligados a quitar su patria y a dirigirse sobre todo hacia el Magreb. Recientemente se han analizado varios vectores de la política de los Austrias respecto a los moriscos y las oscilaciones de esta política, sus causas internas y externas, y de ello se deduce que la división de criterios fue patente. Y también se ha analizado la participación de profesionales moriscos en episodios de la vida peninsular como la Armada Invencible, y en la derrota del rey don Sebastián de Portugal en Marruecos, o de la vida africana subsahariana como en la conquista de Tombuctú y en las huellas étnicas y culturales que dejaron allí hasta ahora.
Los moriscos crearon e hicieron funcionar durante más de medio siglo el Estado morisco de Salé la Vieja, en Rabat, una nueva patria con relaciones internacionales europeas y con la misma España e Felipe IV. Otras nuevas patrias hubo en Tetuán, en Chauen, en Tremecén, en Túnez, patrias adoptivas.
No todos se fueron al Magreb, sin embargo. Hubo una emigración fuerte, no cuantificada hasta ahora, al imperio Otomano, lo mismo que habían hecho muchos sefardíes.
La Civilización que queremos vivir nos lleva a un mundo global y es simplemente la suma y la mezcla de las civilizaciones. No puede haber choque de civilizaciones y de hecho nunca lo ha habido, sino interpenetraciones o amalgamas. Al-Andalus es un claro ejemplo de un proceso así, y lo ha sido el propio continente americano. No hay choque de civilizaciones sino desconocimiento y el desconocimiento es disoluble con el tiempo, con la enseñanza en unos y en otros, con la comunidad de intereses y con el diálogo.
Todo lo cual se resume en la necesidad imprescindible de una información cierta, de una traducción cierta de conceptos dada con una terminología lúcida, sin seguir empeñándonos en añadir veladuras y viendo lo poco que hacemos por favorecer nuestras semejanzas y lo mucho que hacemos por reanimar nuestras diferencias con otros países y otras vertientes de la fe. Esto último es el analfabetismo histórico-cultural que practican hueca y presuntuosamente algunos políticos y algunos religiosos de varias tendencias, en lugar de ser responsables ante la verdad, de revalorizar la política o la religión y de enseñar a la calle.
La “alianza de civilizaciones” que preconizan España y Naciones Unidas, no es sólo un abrazo sino que también representa la alianza de los egoísmos bien concebidos porque son los de la supervivencia, los del desarrollo, como he dicho, y del enriquecimiento de los valores aprendidos o heredados los unos de los otros. Es la convivencia en la diversidad, en donde no cabe más enfrentamiento que el de la palabra y por esto esa palabra tiene que ser veraz, útil, clara, bien vertida de unas lenguas a otras; es decir, la propia del concepto que se quiere expresar y por la que se pretende entender a los otros, ser entendido e informar. Un tesoro a compartir, si cabe, entre Sancho Panza y su amigo y vecino el morisco Ricote.
Al-Andalus fue el resultado de una polémica razonada y vivida, de una conversación continuada y de la traducción correcta de los intereses propios; y es por eso que ha quedado como paradigma ideal para muchos pueblos y modelo eventualmente readaptable.
La “alianza de civilizaciones”, que mencionaba antes, es una continuación de este arquetipo pero proyectado a lo largo y ancho de este mundo global y visto como deseable esquema de futuro para todos.
En principio, el esquema deseable se basa en dos realidades: la del entendimiento de los pueblos y, por añadidura, el acuerdo y el equilibrio de sus gobiernos, sus economías, sus políticas y sus diplomacias; y la de las minorías de sentimiento compartido, que de momento son minorías pero que van creciendo y es de esperar que se difundan mucho más rápida, y eficaz.
La expulsión de los judíos en España: Sefarad
Su eSefarad una serie di cinque eccellenti video sull'espulsione degli ebrei dalla Spagna del 1492, ad opera dei re cosiddetti cattolici. Di seguito i link:
Prima parte: http://www.esefarad.com/?p=6910
Seconda parte: http://www.esefarad.com/?p=6914
Terza parte: http://www.esefarad.com/?p=6917
Quarta parte: http://www.esefarad.com/?p=6917
Quinta parte: http://www.esefarad.com/?p=6920
Prima parte: http://www.esefarad.com/?p=6910
Seconda parte: http://www.esefarad.com/?p=6914
Terza parte: http://www.esefarad.com/?p=6917
Quarta parte: http://www.esefarad.com/?p=6917
Quinta parte: http://www.esefarad.com/?p=6920
¿La Sabiduría de Sancho? - Especial de Santos Mayo para eSefarad
Fonte: http://www.esefarad.com/?p=7330
El gran Don Miguel de Cervantes Saavedra nos cuenta en el Capítulo 45 del segundo tomo de su Quijote, cómo Sancho Panza, luego de haber tomado posesión de su insula Barataria, comienza a gobernar con tanto juicio y salero que deja a los pobladores admirados de poseer tanta sabiduría.
Y, como hay mucho hilo en la madeja, Don Miguel nos relata una serie de sentencias en las que Sancho, gobernador y juez supremo, dicta para bien de todos sus súbditos. He aquí un hermoso ejemplo que ilustra la sabiduría de Sancho. Se presentan ante el gobernador dos ancianos reclamando justicia. Uno de ellos, el acreedor declara:
“Señor, a este buen hombre le presté días ha diez escudos de oro, por hacerle placer y buena obra, con condición que me los volviese cuando se los pidiese; pasáronse muchos días sin pedírselos, por no ponerle en mayor necesidad, de volvérmelo que la que él tenía cuando yo se los presté; pero por parecerme que se descuidaba en la paga, se los he pedido una y muchas veces, y no solamente no me los vuelve, pero se niega y dice que nunca tales diez escudos le presté, que ya me los ha devuelto. Yo no tengo testigos ni del prestado, ni de la vuelta, porque no me los ha vuelto; quería que vuesa merced le tomase juramento, y si jurase que me los ha vuelto, yo se los perdono para aquí y para delante de Dios.”
Pensó Sancho sobre el caso y le pidió al segundo que alegara su parte. A lo que dijo el viejo:
“Yo señor, confieso que me los prestó, y baje vuesa merced, esa vara; y pues él deja en mi juramento yo juraré como se los he vuelto y pagado real y verdaderamente”.
“El viejo que se preparaba para jurar, traía en su mano su báculo de caña que se lo dio al acreedor para que se le tuviese mientras juraba. Puso luego su mano sobre la cruz de la vara, diciendo que era verdad que se le habían prestado aquellos diez escudos que se le pedían pero que él se los había devuelto de su mano a la suya, y que por no caer en ello se los volvía a pedir por momento”.
“El gobernador preguntó al acreedor qué respondía a lo que decía su contrario y dijo que sin duda su deudor, debía de decir la verdad porque le tenía por hombre de bien y buen cristiano y que a él se le debía de haber olvidado el cómo y cuándo se los había devuelto y que desde allí en adelante jamás le pediría nada”.
“Tornó a tomar su báculo el deudor y bajando la cabeza, se salió del juzgado; visto lo cual Sancho, y que sin más se iba, y viendo también la paciencia del demandante, inclinó la cabeza sobre el pecho, y poniéndose el índice de la mano derecha sobre las cejas y las narices, estuvo pensativo un pequeño espacio, y luego alzó la cabeza y mandó que le llamasen al viejo del báculo, que ya se había ido. Trajéronle, y en viéndole Sancho, le dijo:”
“-Dadme, buen hombre, ese báculo que le he menester”.
“-De muy buena gana –respondió el viejo-; hele aquí, señor.
“Y púsole en la mano. Tomóle Sancho, y dándosele al otro viejo, le dijo:
“-Andad con Dios, que ya vais pagado”.
“-¿Yo, señor? –respondió el viejo-. Pues ¿vale esta cañaheja diez escudos de oro?”.
“-Sí –dijo el gobernador-: o si no yo soy el mayor porro del mundo”.
“Y ahora se verá si tengo yo calatre para gobernar todo un reino”.
“Y mandó que allí delante de todos se rompiese y abriese la caña. Hízose así y, en el corazón de ella hallaron diez escudos de oro; quedaron todos admirados, y tuvieron a su gobernador por un nuevo Salomón”.
Hasta aquí el cuento, que se supone es original de Cervantes. Pero… una mirada al Talmud Bavlí, Tratado Nedarim, página 25A nos lleva a la época de esplendor judío en Bavel durante el período de los Amoraim, particularmente a los siglos III y IV de la EC donde encontramos un episodio idéntico al relatado por Cervantes en el que interviene un prominente rab.
El gran talmudista Abba ben Joseph bar Hama nació en Babilonia (270-350 EC) y fue uno de los rabinos más citados en el Talmud, conocido como el Rava. Estudió en la Yeshivá de Pumbedita situada en lo que actualmente es territorio de Iraq y fue famoso por sus debates con su compañero de estudios, el gran talmudista Abayé quien luego fue director de esa escuela, una de las yeshivot más consultadas por las comunidades judías de Europa durante la Edad Media, particularmente por las comunidades de Sefarad.
En este texto talmúdico el Rava confronta a ambos personajes, al acreedor y al deudor y plantea una cuestión básica: cuando alguien presta juramento debe hacerlo utilizando un lenguaje cuyo significado sea claro y objetivo. No puede emplear expresiones que solo son válidas en su propia interpretación. Debe utilizar el lenguaje correcto ante la Corte, de acuerdo al significado estricto y objetivo de las palabras sin intentar, mediante estratagemas, impedir o confundir la comprensión de los hechos reales.
El Dr. Eliezer Segal, Profesor de Estudios Religiosos de la Universidad de Calgary, Canada, en su artículo titulado “Hollow Victories” (http://people.ucalgary.ca/~elsegal/Shokel/050707_Hollow Victories.html)
elabora sobre el mismo tema, denominado “kanya-de-Rava, que presenta como ejemplo proverbial del prototipo de razonamiento talmúdico. Sorprendentemente, según el Dr. Segal, el ejemplo conocido como más antiguo de este mismo caso precede a la época del Rava por varios siglos. En el siglo I, AEC, aparece un relato similar hecho por un romano llamado Konon, un viajero originario de Mileto, ciudad de la antigua Grecia.
Surge así la intrigante cuestión de cómo Cervantes (1547 – 1616) viviendo en la España Inquisitorial del siglo XVII, se atreve a incorporar al Quijote un cuento talmúdico, y cómo llega a conocer la existencia del Rava en la remota Pumbedita de los siglos III y IV.
¿Estuvo quizás en contacto con judíos o criptojudíos viviendo ocultos en España luego del desastre de 1492?
Según la Dra. Ruth Fine, Profesora de Literatura Iberoamericana en la Universidad Hebrea de Jerusalem, Cervantes vivió cinco años en Argelia como cautivo de unos piratas antes de escribir su Quijote (1). Allí tuvo amplia ocasión de buscar y establecer contactos con judíos e informarse de detalles sobre judaísmo imposibles de adquirir durante esos años en la España Inquisitorial. En efecto, según la Dra. Fine, en las múltiples obras de Cervantes se encuentran más de 300 referencias ocultas o disimuladas a cuestiones tales como la observancia de Kashrut, el Shabbat y otras, que documentan hasta qué punto conocía la práctica de la religión judía.
La Dra. Fine menciona también que en el Capítulo 9 del tomo I del Quijote, don Miguel relata que en el Alcaná de Toledo (la feria) compró de un vendedor ambulante un manuscrito en caracteres arábigos. Éste resultó ser nada menos que la historia de su héroe, Don Quijote, escrita por un autor imaginario, Cide Hamete Benengeli, historiador arábigo. Buscando un traductor para verter este manuscrito del arábigo al castellano, comenta don Miguel que aunque estuviera escrito en caracteres de “otra mejor y más antigua lengua, hubiera encontrado traductor”. ¿A qué otra antigua y mejor lengua pudo haberse referido Cervantes sino al hebreo?
Don Miguel (2) fue el cuarto hijo de siete, del matrimonio de Rodrigo de Cervantes y Leonor de Cortinas. Rodrigo era cirujano, una profesión poco apreciada por aquella sociedad y generalmente reservada por entonces a judíos conversos, los nuevos cristianos. La familia buscó fortuna en varias ciudades de España sin mayor éxito. Incluso Rodrigo llegó a estar preso por no pagar sus deudas. El joven Miguel viajó a Roma en busca de nuevos horizontes donde estuvo al servicio del Cardenal Giulio Acquaviva. Desde allí escribió a su padre solicitando le enviara un certificado de “limpieza de sangre” para así poder acceder a un empleo oficial. Dicho certificado le fue enviado a Roma el 22 de diciembre, 1569.
Algunos escritores observan que tales falsos certificados eran objeto de intenso comercio durante la época. Inclusive la Inquisición emitía entonces, a precio apropiado, dichos certificados que resultaban ser condición indispensable para obtener empleo (3). En 1571 Cervantes se incorporó a la armada cristiana que venció a la turca en la famosa batalla del Golfo de Lepanto, a la entrada de la bahía de Corinto, en el mar Iónico. Allí pierde su mano izquierda (el manco de Lepanto) y recibe otras heridas que lo obligan a internarse en el hospital de Messina. En 1572 vuelve al servicio activo en Palermo y Nápoles. Armado con cartas de recomendación de sus superiores obtiene en 1575, permiso del rey de España para su retorno a la patria. En el viaje de vuelta es capturado por piratas turcos y vendido como esclavo en Argelia, gobernada entonces por un Bey turco. Luego de varios intentos fallidos de escape, fue liberado gracias al pago de un elevado rescate, pagado en parte por su familia, retornando a su país hacia fines de 1580.
Basado a sus brillantes antecedentes militares al servicio del reino realiza numerosos intentos para acceder a algún cargo oficial de gobierno en España o en las colonias de America sin éxito alguno. Don Miguel se convence de la imposibilidad de lograr un cargo oficial y se dedica de lleno a su tarea de escritor. La primera parte de su Don Quijote se publica en Madrid en 1605 y obtiene un éxito resonante, cuando el autor tenía ya 58 años de edad. Este clásico de la literatura universal ha sido traducido a muchos idiomas y es la segunda obra más publicada, luego de la Biblia. ¿Es posible que Cervantes, probablemente el mejor escritor español hasta el presente, haya sido descendiente, aunque remotamente, de nuestros Sefardim? Esperemos que nuestros historiadores y científicos puedan pronto aclarar este enigma.
Santos Mayo para eSefarad.
(1) Radio Sefarad, Madrid (www.radiosefarad.com) sección “El Marcapáginas” (12 de noviembre, 2009).
(2) William C. Atkinson, Encyclopedia Britannica Volumen 3, pg. 1182 (1979).
(3) Howard M. Sachar, Farewell España, Random House, New York (1994).
El gran Don Miguel de Cervantes Saavedra nos cuenta en el Capítulo 45 del segundo tomo de su Quijote, cómo Sancho Panza, luego de haber tomado posesión de su insula Barataria, comienza a gobernar con tanto juicio y salero que deja a los pobladores admirados de poseer tanta sabiduría.
Y, como hay mucho hilo en la madeja, Don Miguel nos relata una serie de sentencias en las que Sancho, gobernador y juez supremo, dicta para bien de todos sus súbditos. He aquí un hermoso ejemplo que ilustra la sabiduría de Sancho. Se presentan ante el gobernador dos ancianos reclamando justicia. Uno de ellos, el acreedor declara:
“Señor, a este buen hombre le presté días ha diez escudos de oro, por hacerle placer y buena obra, con condición que me los volviese cuando se los pidiese; pasáronse muchos días sin pedírselos, por no ponerle en mayor necesidad, de volvérmelo que la que él tenía cuando yo se los presté; pero por parecerme que se descuidaba en la paga, se los he pedido una y muchas veces, y no solamente no me los vuelve, pero se niega y dice que nunca tales diez escudos le presté, que ya me los ha devuelto. Yo no tengo testigos ni del prestado, ni de la vuelta, porque no me los ha vuelto; quería que vuesa merced le tomase juramento, y si jurase que me los ha vuelto, yo se los perdono para aquí y para delante de Dios.”
Pensó Sancho sobre el caso y le pidió al segundo que alegara su parte. A lo que dijo el viejo:
“Yo señor, confieso que me los prestó, y baje vuesa merced, esa vara; y pues él deja en mi juramento yo juraré como se los he vuelto y pagado real y verdaderamente”.
“El viejo que se preparaba para jurar, traía en su mano su báculo de caña que se lo dio al acreedor para que se le tuviese mientras juraba. Puso luego su mano sobre la cruz de la vara, diciendo que era verdad que se le habían prestado aquellos diez escudos que se le pedían pero que él se los había devuelto de su mano a la suya, y que por no caer en ello se los volvía a pedir por momento”.
“El gobernador preguntó al acreedor qué respondía a lo que decía su contrario y dijo que sin duda su deudor, debía de decir la verdad porque le tenía por hombre de bien y buen cristiano y que a él se le debía de haber olvidado el cómo y cuándo se los había devuelto y que desde allí en adelante jamás le pediría nada”.
“Tornó a tomar su báculo el deudor y bajando la cabeza, se salió del juzgado; visto lo cual Sancho, y que sin más se iba, y viendo también la paciencia del demandante, inclinó la cabeza sobre el pecho, y poniéndose el índice de la mano derecha sobre las cejas y las narices, estuvo pensativo un pequeño espacio, y luego alzó la cabeza y mandó que le llamasen al viejo del báculo, que ya se había ido. Trajéronle, y en viéndole Sancho, le dijo:”
“-Dadme, buen hombre, ese báculo que le he menester”.
“-De muy buena gana –respondió el viejo-; hele aquí, señor.
“Y púsole en la mano. Tomóle Sancho, y dándosele al otro viejo, le dijo:
“-Andad con Dios, que ya vais pagado”.
“-¿Yo, señor? –respondió el viejo-. Pues ¿vale esta cañaheja diez escudos de oro?”.
“-Sí –dijo el gobernador-: o si no yo soy el mayor porro del mundo”.
“Y ahora se verá si tengo yo calatre para gobernar todo un reino”.
“Y mandó que allí delante de todos se rompiese y abriese la caña. Hízose así y, en el corazón de ella hallaron diez escudos de oro; quedaron todos admirados, y tuvieron a su gobernador por un nuevo Salomón”.
Hasta aquí el cuento, que se supone es original de Cervantes. Pero… una mirada al Talmud Bavlí, Tratado Nedarim, página 25A nos lleva a la época de esplendor judío en Bavel durante el período de los Amoraim, particularmente a los siglos III y IV de la EC donde encontramos un episodio idéntico al relatado por Cervantes en el que interviene un prominente rab.
El gran talmudista Abba ben Joseph bar Hama nació en Babilonia (270-350 EC) y fue uno de los rabinos más citados en el Talmud, conocido como el Rava. Estudió en la Yeshivá de Pumbedita situada en lo que actualmente es territorio de Iraq y fue famoso por sus debates con su compañero de estudios, el gran talmudista Abayé quien luego fue director de esa escuela, una de las yeshivot más consultadas por las comunidades judías de Europa durante la Edad Media, particularmente por las comunidades de Sefarad.
En este texto talmúdico el Rava confronta a ambos personajes, al acreedor y al deudor y plantea una cuestión básica: cuando alguien presta juramento debe hacerlo utilizando un lenguaje cuyo significado sea claro y objetivo. No puede emplear expresiones que solo son válidas en su propia interpretación. Debe utilizar el lenguaje correcto ante la Corte, de acuerdo al significado estricto y objetivo de las palabras sin intentar, mediante estratagemas, impedir o confundir la comprensión de los hechos reales.
El Dr. Eliezer Segal, Profesor de Estudios Religiosos de la Universidad de Calgary, Canada, en su artículo titulado “Hollow Victories” (http://people.ucalgary.ca/~elsegal/Shokel/050707_Hollow Victories.html)
elabora sobre el mismo tema, denominado “kanya-de-Rava, que presenta como ejemplo proverbial del prototipo de razonamiento talmúdico. Sorprendentemente, según el Dr. Segal, el ejemplo conocido como más antiguo de este mismo caso precede a la época del Rava por varios siglos. En el siglo I, AEC, aparece un relato similar hecho por un romano llamado Konon, un viajero originario de Mileto, ciudad de la antigua Grecia.
Surge así la intrigante cuestión de cómo Cervantes (1547 – 1616) viviendo en la España Inquisitorial del siglo XVII, se atreve a incorporar al Quijote un cuento talmúdico, y cómo llega a conocer la existencia del Rava en la remota Pumbedita de los siglos III y IV.
¿Estuvo quizás en contacto con judíos o criptojudíos viviendo ocultos en España luego del desastre de 1492?
Según la Dra. Ruth Fine, Profesora de Literatura Iberoamericana en la Universidad Hebrea de Jerusalem, Cervantes vivió cinco años en Argelia como cautivo de unos piratas antes de escribir su Quijote (1). Allí tuvo amplia ocasión de buscar y establecer contactos con judíos e informarse de detalles sobre judaísmo imposibles de adquirir durante esos años en la España Inquisitorial. En efecto, según la Dra. Fine, en las múltiples obras de Cervantes se encuentran más de 300 referencias ocultas o disimuladas a cuestiones tales como la observancia de Kashrut, el Shabbat y otras, que documentan hasta qué punto conocía la práctica de la religión judía.
La Dra. Fine menciona también que en el Capítulo 9 del tomo I del Quijote, don Miguel relata que en el Alcaná de Toledo (la feria) compró de un vendedor ambulante un manuscrito en caracteres arábigos. Éste resultó ser nada menos que la historia de su héroe, Don Quijote, escrita por un autor imaginario, Cide Hamete Benengeli, historiador arábigo. Buscando un traductor para verter este manuscrito del arábigo al castellano, comenta don Miguel que aunque estuviera escrito en caracteres de “otra mejor y más antigua lengua, hubiera encontrado traductor”. ¿A qué otra antigua y mejor lengua pudo haberse referido Cervantes sino al hebreo?
Don Miguel (2) fue el cuarto hijo de siete, del matrimonio de Rodrigo de Cervantes y Leonor de Cortinas. Rodrigo era cirujano, una profesión poco apreciada por aquella sociedad y generalmente reservada por entonces a judíos conversos, los nuevos cristianos. La familia buscó fortuna en varias ciudades de España sin mayor éxito. Incluso Rodrigo llegó a estar preso por no pagar sus deudas. El joven Miguel viajó a Roma en busca de nuevos horizontes donde estuvo al servicio del Cardenal Giulio Acquaviva. Desde allí escribió a su padre solicitando le enviara un certificado de “limpieza de sangre” para así poder acceder a un empleo oficial. Dicho certificado le fue enviado a Roma el 22 de diciembre, 1569.
Algunos escritores observan que tales falsos certificados eran objeto de intenso comercio durante la época. Inclusive la Inquisición emitía entonces, a precio apropiado, dichos certificados que resultaban ser condición indispensable para obtener empleo (3). En 1571 Cervantes se incorporó a la armada cristiana que venció a la turca en la famosa batalla del Golfo de Lepanto, a la entrada de la bahía de Corinto, en el mar Iónico. Allí pierde su mano izquierda (el manco de Lepanto) y recibe otras heridas que lo obligan a internarse en el hospital de Messina. En 1572 vuelve al servicio activo en Palermo y Nápoles. Armado con cartas de recomendación de sus superiores obtiene en 1575, permiso del rey de España para su retorno a la patria. En el viaje de vuelta es capturado por piratas turcos y vendido como esclavo en Argelia, gobernada entonces por un Bey turco. Luego de varios intentos fallidos de escape, fue liberado gracias al pago de un elevado rescate, pagado en parte por su familia, retornando a su país hacia fines de 1580.
Basado a sus brillantes antecedentes militares al servicio del reino realiza numerosos intentos para acceder a algún cargo oficial de gobierno en España o en las colonias de America sin éxito alguno. Don Miguel se convence de la imposibilidad de lograr un cargo oficial y se dedica de lleno a su tarea de escritor. La primera parte de su Don Quijote se publica en Madrid en 1605 y obtiene un éxito resonante, cuando el autor tenía ya 58 años de edad. Este clásico de la literatura universal ha sido traducido a muchos idiomas y es la segunda obra más publicada, luego de la Biblia. ¿Es posible que Cervantes, probablemente el mejor escritor español hasta el presente, haya sido descendiente, aunque remotamente, de nuestros Sefardim? Esperemos que nuestros historiadores y científicos puedan pronto aclarar este enigma.
Santos Mayo para eSefarad.
(1) Radio Sefarad, Madrid (www.radiosefarad.com) sección “El Marcapáginas” (12 de noviembre, 2009).
(2) William C. Atkinson, Encyclopedia Britannica Volumen 3, pg. 1182 (1979).
(3) Howard M. Sachar, Farewell España, Random House, New York (1994).
Los Moriscos emigrantes en el Magreb
Los Moriscos emigrantes en el Magreb - Estructuras de acogida que tuvieron los musulmanes peninsulares en las sociedades musulmanas, especialmente en el Mágreb - Autor: Míkel de Epalza - Fuente: Cuadernos de Trabajo Social de la Universidad de Alicante
Fonte digitale. http://www.webislam.com/?idt=14736
El flujo actual de emigrantes laborales del Norte de África a Europa Occidental -tema específico en este volumen de la revista «Alternativas. Cuadernos de Trabajo Social», de la Universidad de Alicante- ha sido evocado como «el retorno de los moriscos» (Bernabé López García), en referencia a la expulsión general de los últimos musulmanes de la Península, que habían sido obligados a hacerse cristianos a principios del siglo XVI y fueron obligados a salir de España a principios del XVII, acabando instalándose en la sociedad del Norte de África la mayoría de los que consiguieron sobrevivir a la odisea de los viajes de la expulsión'.
En este pequeño estudio, se van a presentar las principales estructuras de acogida que tuvieron los musulmanes peninsulares en las sociedades musulmanas, especialmente en el Mágreb y con especial referencia a los moriscos expulsados de España a principios del siglo XVII (1609-1614)6.
Pero hay que saber situar este episodio de la historia de las migraciones mediterráneas en el contexto de su época y, en particular, de las emigraciones hispánicas en la sociedad magrebí7.
1. ESTRUCTURAS DE ACOGIDA TRADICIONALES DE LOS ANDALUSÍES EN EL MÁGREB
Sintetizando más de nueve siglos de relaciones entre Al-Ándalus y el Mágreb, «entre las dos orillas»8, como lo expresaban en árabe los escritores medievales (desde la llegada de los musulmanes a Hispania, en 711, a la expulsión final, en 1614), las estructuras tradicionales de acogida de los andalusíes en las sociedades magrebíes son bastante constantes. Serán la base -no la única, como se verá- de las estructuras de acogida de los moriscos, en la masiva inmigración que provocó la gran expulsión española del XVII.
1.1. Infraestructuctura del deber islámico de la Peregrinación
Lo primero que hay que decir es que la sociedad musulmana en general tiene tradicionalmente importantes infraestructuras de acogida para los viajeros. Es una sociedad de viajeros, por la obligación que tienen los musulmanes de realizar la Peregrinación a La Meca (Makka), al menos una vez en la vida, si tienen la posibilidad de hacerlo'.
1.2. Carácter urbano y cosmopolita de la religión islámica
Por otra parte, la sociedad islámica, estructurada por la fe del Islam, es una sociedad urbana y comercial, que heredó de las sociedades urbanas que le precedieron (especialmente las herederas a su vez de las civilizaciones romana y persa) una importante red viaria -que supieron conservar y desarrollar- de calzadas y caminos terrestres, de navegación marítima especializada en el cabotaje y de acogida de viajeros.
Las estructuras sociales de acogida de los foráneos estaban favorecidas también por la evolución de la sociedad musulmana hacia un cosmopolitismo nuevo. La religión musulmana, sin suprimir los lazos étnicos y hasta tribales de las sociedades precedentes, desarrolló unas sociedades cosmopolitas en las ciudades de su imperio -ya desde La Meca y Medina, y a pesar de las fragmentaciones políticas-, que favorecían la insersión de los extranjeros 10.
1.3. Los andalusíes, viajeros al Mágreb y Oriente
Los andalusíes, desde sus inicios, viajaron mucho a Oriente, por mar directamente o visitando diversas regiones magrebíes (los musulmanes, porque tenían muchas veces raíces familiares en el Mágreb o en el Máshreq u Oriente árabe, o por intereses científicos y comerciales en las principales ciudades magrebíes, como Kairawán, Túnez, Bona/ Annaba, Buj ía/B idjaia, Tremecén/Tlemcén, Fez, Marráquesh...; los judíos, por sus relaciones con sus correligionarios magrebíes u orientales; y hasta los nobles visigodos cristianos del momento de la conquista, que visitaron a los califas de Damasco por diversas razones políticas, como el obispo Oppas, la princesa Sara, el noble Teodomiro, etc.).
A la vuelta de la peregrinación, muchos andalusíes se quedaban en las diversas ciudades del Máshreq o del Mágreb, formando colonias de andalusíes que acogían con especial hospitalidad a los nuevos viajeros de Al-Andalus. Estas colonias están perfectamente documentadas en ciudades como Alejandría, El Cairo, La Meca, Medina, Bagdad, Damasco, Jerusalén y las ya mencionadas ciudades magrebíes.
1.4. Emigraciones por conquistas hispano-cristianas (ss.XII-XV)
Todas estas infraestructuras medievales fueron muy importantes para acoger a los andalusíes cuando los avances de las conquistas cristianas fueron reduciendo los territorios de dominio político musulmán.
Esas conquistas fueron desplazando poblaciones musulmanas hacia el Mágreb, especialmente con la ocupación cristiana de ciudades, que dejaban sin poder a las clases dirigentes árabes. Las caídas de Toledo (1085), de Zaragoza (1118) y de las últimas ciudades del Valle del Ebro, Tortosa y Lleida (1149), etc., iniciaron un fenómeno de emigración de poblaciones, tanto hacia el sur de Al-Ándalus como hacia el vecino Mágreb, atraídos especialmente por la nueva sede del poder, Marrakech, capital -desde mediados del siglo XI- de las dinastías almorávide y almohade, que gobernaban lo que quedaba del territorio musulmán de Al-Ándalus.
Cuando las grandes conquisas cristianas del siglo XIII -Baleares, Valencia, Murcia, Valle del Guadalquivir, Algarve portugués-, la emigración andalusí ya fue masiva, tanto al reino de Granada de la dinastía nazarí como, sobre todo, a los reinos magrebíes post-almohades de Marrakesh, Fez, Tremecén y Túnez. Los grandes funcionarios de esos reinos post-almohades eran generalmente de origen andalusí y pesaron mucho en la transmisión de los modelos culturales andalusíes en las sociedades magrebíes12. A lo largo de los siglos XIII al XV (hasta la caída del reino de Granada, 1482-1492) el goteo de emigrantes andalusíes hacia el Mágreb, tanto del reino nazarí musulmán de Granada como de musulmanes mudéjares de los reinos hispanos cristianos, fue constante, aprovechando precisamente las anteriormente citadas infraestructuras de acogida.
La emigración que siguió a la guerra de conquista de Granada sólo nos es conocida parcialmente, por la escasez de las fuentes y por la falta de estudios globales científicos. A pesar de la importante masa de emigrantes, frenada por disposiciones de Reyes Católicos (privilegios a nobles granadinos, conversiones forzosas al cristianismo, etc.), las estructuras de insersión en el Mágreb, heredadas de siglos pasados, debieron funcionar, porque pocos problemas de adaptación quedan registrados en las fuentes históricas.
1.5. Emigraciones peninsulares a Marruecos y Argelia (s.XVI) A. De la obligación, o no, de emigrar a territorio musulmán15
La obligación de no permanecer en una sociedad no-musulmana y de emigrar de ella hacia territorios donde reina la ley islámica es un tema de cierta importancia en el Islam, que da prioridad al vivir en una sociedad islámica, como la que creó el profeta Mahoma/Muhámmad en Medina, frente a otras posibilidades como las de las comunidades que él mismo envió desde La Meca, antes de su hégira a Medina.
La situación de musulmanes «emigrantes» a sociedades no-musulmanas se dio pronto en el Islam, por los numerosos viajeros que hacían comercio o estaban de embajadas muy oficiales -o las dos cosas a la vez- fuera de territorios gobernados por autoridades musulmanas. Cómo vivir en esas sociedades, si se mantienen en ellas los musulmanes y sus comunidades, ha dado lugar a una producción teológica islámica muy particular, con una doble tendencia: la más teórica y rigorista, que defiende la absoluta obligación de emigrar a tierras de musulmanes, y la más realista y permisiva, que se centra en las formas de vivir y convivir en sociedades gobernadas por no-musulmanes.
Este tema fue particularmente importante en el Occidente musulmán, a medida que avanzaban las conquistas cristianas en el Mediterráneo occidental (Sicilia, Hispania). El jurista siciliano Al-Mazari, refugiado en Túnez tras la conquista cristiana de la isla (s.XI), ha dejado uno de los textos más antiguos y razonados sobre el tema. Otros textos declarativos (fatwas) se habían dado tras la ocupación cristiana de la mayor parte de los territorios de Al-Andalus, a mediados del siglo XIII. Pero fue la conquista cristiana de Granada y las sucesivas obligaciones de convertirse al cristianismo de los musulmanes «mudéjares» de los reinos hispanos (Portugal, 1497; Granada, 1500; Corona de Castilla, 1502; Navarra, después de 1512; Corona de Aragón, 1526) lo que iba a agudizar la tensión entre las dos tendencias9.
Los historiadores modernos han dilucidado que estas disputas teológicas islámicas venían muy condicionadas por posturas políticas: los partidarios de la emigración obligatoria miraban el reforzamiento del Islam en los estados musulmanes del Mágreb que acogerían a esos futuros soldados, mientras que los partidarios de permanecer en las sociedades hispanas miraban las posibilidades de formar unas comunidades de musulmanes también hispanos, germen de conversiones y de futuras conquistas del poder islámico en España.
Tema político fundamental tenía que ser precisamente la capacidad de estructuras de acogida en el Mágreb para esos musulmanes de las sociedades hispanas, en el siglo XVI, como se puede ver en dos ejemplos bien documentados, en Marruecos y en Argelia.
B. La reconstrucción militar de Tetuán por los granadinos de AlMándari
Una de las más importantes consecuencias de la caída de Granada, para la sociedad magrebí, fue la reconstrucción de la ciudad de Tetuán, por el dirigente granadino Al-Mándari, que supo atraer a muchos de sus compatriotas, emigrantes del ocupado Reino nazarí de Granada.
Tetuán era -y sigue siendo- la puerta de la región montañosa del Rif, que tiene al sur, y domina la llanura costera que tiene al norte, con la desembocadura del río Marfil y finalmente la península de Ceuta, frente a las costas hispánicas. Por su situación estratégica, había sido víctima de una expedición cristiana, en 1437, que la arrasó, mientras que su vecina Ceuta era conquistada por los portugueses (1415) y pasaría mucho más tarde a los españoles (1640)21.
La labor de Al-Mándari consistió precisamente en crear una estructura de acogida, civil y militar, en el Mágreb. Construyó -o reconstruyó- una ciudad, con todas sus estructuras urbanas islámicas, para el establecimiento de una población musulmana inmigrante. Pero también reforzó con esos inmigrantes las estructuras militares defensivas de una sociedad magrebí muy seriamente amenazada por el fuerte poder expansivo de los reinos hispanos, en el Atlántico y en el Mediterráneo desde Melilla a Trípoli, en menos de quince arios".
León El Africano, contemporáneo y compatriota de Al-Mándari, narra brevemente su gesta, con detalles que subrayan su acción de acogida e integración de musulmanes de Al-Andalus en el Mágreb, en sus aspectos militares y civiles:
«...Obtuvo autorización para restablecer el gobierno de la ciudad y beneficiarse de él. Reconstruyó toda las murallas de Tetuán, construyendo una fortaleza muy sólida, y ciñó de fosos esa fortaleza, así como la muralla de la ciudad. Seguidamente guerreó sin parar con los portugueses. A menudo causó mucho mal a Ceuta, Alcazarseguer y Tánger. Tenía, en efecto, permanentemente consigo trescientos jinetes, todos granadinos y la flor de Granada...Ese hombre fue extremadamente generoso, al punto de recibir a todo extranjero que pasaba por la ciudad...».
De este y otros ejemplos puede deducirse que la estructura de la sociedad magrebí para acoger a los inmigrantes musulmanes de la Península Ibérica, en esa época, era una estructura urbana con sus ciudades cosmopolitas, y no zonas rurales más o menos montañosas del Mágreb medio (actual Argelia) o del Mágreb extremo (Marruecos)24.
Y con expresa o tácita intención de reforzar las estructuras militares de los poderes políticos de la zona, tanto para su política interior como exterior.
Andalusíes en los ejércitos marroquíes
Dos hechos muy conocidos de la política militar marroquí a lo largo del siglo XVI y principios del XVII muestran la importancia de la estructura militar al servicio de los soberanos musulmanes en el fenómeno de insersión de los musulmanes mudéjares y moriscos inmigrantes de España, en el vecino Mágreb.
El primero es la participación de un cuerpo de ejército, compuesto por soldados moriscos y dirigidos por su jefe el almeriense Pachá Jáudar, en la expedición marroquí que envió el soberano Áhmad Al-Mansur Adh-Dháhabi a conquistar Tumbuctú y el cauce septentrional del río Níger. Esta expedición ha sido interpretada no sólo como una operación comercial marroquí para controlar el comercio de la sal, del oro y de otros productos subsaharianos, sino también para alejar de la corte marroquí a cuerpos de ejército poderosos, de origen extranjero y sospechosos de intervenir en las luchas políticas marroquíes. La ventaja de su fidelidad al soberano, por su origen extranjero, para dominar a la población marroquí y sus grupos, podía convertirse en inconveniente si pretendían intervenir en la propia política de los dirigentes marroquíes, inclinándose a favor de uno u otro bando de la corte25.
Precisamente unas décadas más tarde, justo antes de la gran expulsión de los moriscos de España de 1609-1614, la acción o defección del cuerpo de ejército de los andalusíes provocó el resultado negativo de la batalla llamada «de los Tres Reyes», que hundió al imperio marroquí en el caos y la anarquía, durante más de treinta años.
Inmigrantes andalusíes en el nacimiento y poderío de Argel
Argelia -el estado, provincia o regencia de Argel, como fue llamada- sintetiza, de otra forma, esos mismos elementos de estructura de acogida de los inmigrantes musulmanes de España, que se han detectado en la sociedad de Marruecos, antes de la gran expulsión final del siglo XVII.
Argel -«Los Islotes», en lengua árabe, o «El Peñón de Argel», como se le llamaba en castellano- era una población insignificante, al pie de unas colinas junto al mar, y se transformó en magnífico puerto militar protegido por los islotes que tenía delante, en la primera década del siglo XVI. Los hermanos Barbarroja, artífices de esta transformación, eran extranjeros a la región y entregaron en 1517 el fruto de su trabajo -la ciudad y los territorios que habían conquistado, hasta las fronteras marroquíes- a otros extranjeros, los turcos del Imperio Otomano, que desde su capital Estanbul dominaban ya Anatolia, el Oriente árabe y gran parte de los Balkanes. Era la mejor forma de atraer a los otomanos hacia el Mediterráneo occidental, para que defendieran el Mágreb islámico de las ocupaciones hispánicas ya mencionadas. Así nació el espacio político argelino moderno, a principios del siglo XVI, como ciudad-estado marítimo y con un hinterland montañoso controlado por vías de comunicación de antiplanicies y de salidas al mar por unos pocos puertos (Bona, Chichel, Bujía, Cherchel, Tenés, Mostaganem, Honéin, etc.).
La creación de Argel corresponde, por tanto, al período de la conversión forzada de los musulmanes mudéjares hispanos en moriscos ya bastante perseguidos, religiosamente y en sus hábitos y costumbres -especialmente los granadinos-. La creación de esa gran ciudad cosmopolita, que atraía a toda clase de mediterráneos con esperanza de futuro -beréberes del interior, europeos convertidos al Islam, orientales de diverso origen y musulmanes hispanos- ofrecía a la emigración morisca unas estructuras sociales muy apropiadas para acogerlos.
No pueden describirse aquí todos los elementos de esas estructuras sociales. Pero están muy bien documentados unos cuerpos de ejército andalusíes -ya en la tercera década del XVI-, y moriscos de las costas valencianas instalados en el puerto de Cherchel vecino de Argel y haciendo naves para las autoridades otomanas, así como toda clase de artesanos que contribuyen a la prosperidad de la capital (en la contrucción, en las nuevas conducciones de agua, en el comercio y en todo lo relativo a las artes de navegación). También puede presuponerse el inicio de la agricultura alimentaria y de la arboricultura de los andalusíes, muy bien documentadas con los poblados moriscos posteriores a la gran expulsión, en el Valle de la Mitidja que rodea a las colinas costeras de Argel26.
El paralelismo con Marruecos es evidente: ciudad nueva como Tetuán, cuerpos de ejército terrestre y marítimo al servicio de las autoridades políticas musulmanas -aquí, nuevas; en Marruecos, más tradicionales- y, globalmente, unas estructuras urbanas cosmopolitas muy flexibles, donde los musulmanes hispanos no desentonaban y donde podían insertarse con cierta facilidad los emigrantes musulmanes españoles, tanto moriscos como «cristianos viejos» recién convertidos al islam, en búsqueda de nueva vida en ese «ultramar» tan cercano.
2. ESTRUCTURAS DE ACOGIDA, CUANDO LA GRAN INMIGRACIÓN FINAL
2.1. Rechazo inicial de la sociedad magrebí hacia los moriscos
La gran expulsión fue decidida y organizada con tanta rapidez como secreto. No se negoció el punto de destino con los países de acogida. Lo principal era su destierro o eliminación de los territorios españoles.
De ahí que la primera etapa de las expulsiones (1609) fue una chapuza oficial que degeneró en una catástrofe para los emigrantes expulsados, los valencianos. Tenían que dirigirse a los puertos magrebíes de Orán-Mazalquivir, ocupados por España desde 1505, y desde esas ciudades amuralladas ser expulsados hacia los territorios circunvecinos, ocupados por tribus seminómadas sedentarizadas y políticamente dependientes del acuartelamiento turco de Mostaganem (a unos 50 kilómetros, al este), de la ciudad de Tremecén (Tilimsán) (a unos 150, al sur) y de la capital de la provincia, vilayet o regencia de Argel (a más de 500 kms., al este).
Apenas desembarcados, eran echados a territorio argelino, ya que ni la estrecha península del fuerte de Mazalquivir, ni la fortaleza de Orán podían estratégicamente albergar esas multitudes, ni tampoco alimentarlas. Entonces, las poblaciones rurales, que veían invadidas sus tierras por esos extranjeros con los que no tenían ni pacto, ni afinidad lingüística, ni cultural y ni siquiera vestimentaria, empezaron a defenderse y saquearles despiadadamente. No se había previsto, ni por parte española, ni por parte magrebí, la más elemental estructura de acogida de los emigrantes forzosos españoles.
Alertadas las autoridades musulmanas, tanto las de Argel como las del vecino reino de Marruecos (a unos 200 kms. de Orán, hacia el oeste), enviaron tropas para defender a los moriscos, castigar a los saqueadores y encaminar a los que habían logrado salvarse hacia las ciudades argelinas y marroquíes, respectivamente.
La estructura fundamental de acogida seguía siendo, como en el pasado, las ciudades tradicionales de Marruecos y las cosmopolitas de Argelia y el resto del Imperio Otomano, con sus capacidades comerciales y artesanales, sus alrededores agropecuarios y sus estructuras militares, todas ellas necesitadas y favorecedoras de mano de obra, especialmente la mano de obra especializada de muchos moriscos de la rica sociedad española.
Pero la mala acogida inicial, que tardó meses en corregirse (y fue jaleada en España, por cristianos partidarios de la expulsión, como un castigo divino a los musulmanes aferrados a su fe islámica), provocó fuertes reacciones en España, donde el proceso de expulsión seguía realizándose con un ritmo acelerado, cuyas características eran mortales para los moriscos: eran transportados a los puertos por militares o por sus señores feudales, que les esquilmaban; se embarcaban para Orán-Mazalquivir en naves militares, donde algunos (y algunas) eran reducidos a escavitud por los oficiales, o en naves civiles auxiliares, venidas de todo el Mediterráneo europeo atraídas por el negocio, jugoso si los moriscos más pudientes les pagaban para ser llevados a Argel u otras ciudades musulmanas (y luego eran desembarcados en la playa magrebí más cercana, como está documentado, o echados al mar, después de despojarles).
Esta circunstancia provocó rebeliones en las montañas valencianas, de moriscos que no querían emigrar en esas condiciones de peligrosidad, rebeliones que fueron aplastadas militarmente.
Pero, por otra parte, personalidades cristianas, eclesiásticas y laicas, se interesaban por la salvación del alma de los niños moriscos, abocados irremediablemente a ser musulmanes si emigraban a territorios islámicos. Pretendían, por tanto, que se les arrancara a sus padres expulsados y se confiara su educación a piadosos cristianos de cuya domesticidad formarían parte. Ante la resistencia natural de los padres y madres musulmanes, hubo de idearse una fórmula intermedia: expulsar a los moriscos a territorios cristianos europeos, donde podrían educar a sus hijos en la fe cristiana con tal de que no se los quitaran (fuentes españolas narran los gritos desgarradores de las madres, al embarcarse sin sus hijos en el puerto de Sevilla, por ejemplo).
2.2. Expulsión por Europa: inserción y paso
Las razones, someramente expuestas, que hacían inviables las emigraciones por Orán y otras plazas españolas en la costa magrebí o el embarque directo hacia países musulmanes, obligaron al gobierno español a idear nuevos itinerarios para la expulsión. Éstos fueron por la vecina Francia o por algunos estados italianos. En Francia reinaba aún Enrique IV, el de Navarra, que había tenido tratos con los moriscos en su política anti-española, y en Italia el soberano de Toscana planificaba enriquecerse con las inversiones económicas de algunos ricos moriscos y con una mano de obra barata para desecar y transformar en ricos territorios agrícolas diversas zonas pantanosas del país.
El camino de Francia para ir a territorios musulmanes está documentado por algunos itinerarios de viaje de los moriscos, a lo largo del XVI, que han llegado hasta nosotros. Algunos moriscos hasta se habían instalado en puertos franceses y ayudaron a los moriscos expulsados a embarcarse hacia otras tierras, como lo habían hecho con casos más individuales, antes de la expulsión.
Porque la inserción de los moriscos en la sociedad francesa resultó muy difícil y sólo se logró en muy contados casos y con precariedad. Pronto se vio que Francia, al igual que Venecia y Toscana, resultaron ser un mero tránsito para miles de moriscos, que luego se embarcaban hacia Marruecos o hacia los territorios magrebíes, balcánicos o anatólicos del Imperio otomano.
2.3. Marruecos: la capital Marrakech y las ciudades costeras de Tetuán y Salé-Rabat
La capacidad de acogida del territorio y de la sociedad marroquíes fue muy importante, pero se canalizó por las estructuras urbanas tradicionales del sultanato, sumido políticamente en una importante guerra civil.
La capital Marrakech, al sur, al pie del Atlas y no lejos del desierto sahariano, había recibido durante siglos a inmigrantes de Al-Andalus. Con la dinastía saadí había integrado a lo largo del siglo XVI numerosos moriscos, como los cuerpos de ejército ya mencionados o al conocido escritor bilingüe y diplomático granadino Áhmad Al-Háchari Bejarano29. Los inmigrantes solían desembarcar en los puertos portugueses de la costa atlántica, que mantenían relaciones con la capital. No se sabe bien si utilizaron ese itinerario parte de los miles de inmigrantes moriscos de la gran expulsión, dada la situación política caótica de la capital, en aquellos años.
En cambio está muy bien documentada la llamada «república morisca de Salé-Rabat», que ocupó durante varias décadas esa zona estratégica costera de la desembocadura del río Bu-Regrag, dirigida políticamente por un grupo de moriscos, emprendedores comerciantes, originarios de la población extremeña de Hornachos, ya especializada en España en el trajineo comercial. El comercio de los saletinos se realizaba sobre todo por mar, con una compleja diplomacia, que intentaba contrarrestar la continua presión de los jefes locales de la región y la de los soberanos marroquíes, que acabaron sometiendo a la ciudad, superadas las guerras civiles.
Al norte, la ciudad de Tetuán y sus alrededores prosiguieron con su acción de acogida de musulmanes peninsulares, que había iniciado AlMándari, un siglo antes.
Entre Tetuán y Salé, un jefe militar de origen andalusí, Gailán, mantuvo durante décadas una lucha continua contra los portugueses y los españoles que ocupaban diversos puntos costeros. Contaba con tropas moriscas y tenía que defenderse también de la población local y de los moriscos de Tetuán y de Salé, a los que procuraba esquilmar para la subsistencia de sus seguidores.
Esta situación volvió a la administración más o menos directa del sultanato de Marrakech al asumir efectivamente el poder la nueva dinastía de chorfas, a mediados del siglo. Pero la situación de autonomía periférica, con gran peso de andalusíes en toda la costa noroccidental del reino, ayudó a muchos moriscos a integrarse en la sociedad del sultanato magrebí, donde se asimilaron totalmente, aunque guardaran algunas características hispánicas, que a veces se han conservado hasta nuestros días, debido también a los continuos flujos de la vecindad geográfica con España.
2.4. El Imperio Otomano: Argel, Túnez, Trípoli, Egipto y el Máshrek, Estambul, Balkanes y Anatolia
El Imperio Otomano, nacido en la península de Anatolia, resurgió con tanta fuerza de la gran crisis general de Oriente Medio producida por los mongoles de Tamerlán, a principios del siglo XV, que no sólo conquistó la mítica Bizancio / Constantinopla / Estambul (1453), sino que a principios del siglo XVI se había hecho con la soberanía de casi todo el mundo árabe (menos Marruecos), desde Argelia hasta la Península de Arabia y el Irak. A lo largo de todo el siglo XVI, apoyó decisivamente a los moriscos musulmanes de España, especialmente desde su provincia (vilayet) de Argelia, aunque su eficacia no correspondiera a las esperanzas de triunfo sobre los españoles, que habían puesto en ellos los moriscos. 30
No se puede uno extender, en la brevedad de este artículo, en las estructuras de acogida del Imperio Otomano con respecto a los moriscos, ni a los numerosos estudios monográficos realizados sobre la insersión de los moriscos en Argelia y sobre todo en Tunisia33, Libia34, Egipto35 y Anatolia36. Pero sí pueden señalarse dos características generales que caracterizan al gobierno otomano en su política de acogida de los inmigrantes moriscos expulsados de España.
Primero, que hubo una política general del Imperio Otomano sobre esa insersión, desde el Mágreb a Anatolia y los Balkanes, coordinada eficazmente desde la Sublime Puerta de Estambul, como lo ha mostrado Abdelmajid Temimi con docuentación otomana.
Segundo, que esa política estaba basada en su experiencia oriental de gobernar a los diferentes grupos étnicos o religiosos dejándoles que tuvieran sus propios jefes -supeditados a las autoridades otomanas de cada provincia.
Así tuvieron los andalusíes sus «sheij» en Túnez, al menos en Túnez y Trípoli, y su «emir sanchak» en las implantaciones moriscas en Anatolia, tanto en las costas de Cilicia como en las fronteras con los persas37". Pero esta institución o autonomía administrativa, como «minoría», no prosperó, ni en el Mágreb, ni en Oriente: en el Mágreb, por la falta de tradición de esta forma de grupo político (con excepción de los judíos y cristianos autóctonos, éstos sólo en la Alta Edad Media); en el resto del Imperio Otomano, seguramente por el escaso número de inmigrantes de origen hispano.
Pero sobre todo dominó el deseo de los moriscos de integrarse en las sociedades de acogida, como creyentes musulmanes y como árabe-hablantes, prescindiendo cada vez más de los demás rasgos hispanos, limitados a la conciencia de origen y a algunos rasgos hispanos de esa tradición.
2.5. Resumen de la insersión de los emigrantes moriscos, por un contemporáneo
Un escritor argelino contemporáneo de la gran expulsión, AlMaqqari de Tremecén, al final de su monumental historia de los musulmanes de Al-Andalus, describe la implantación de los moriscos expulsados en unas pocas líneas, de inmenso valor sintético: «Salieron millares para Fez [Marruecos] y otros millares para Tremecén [Argelia], a partir de Orán, y masas de ellos para Túnez [Tunicia]. En sus itinerarios terrestres, se apoderaron de ellos beduinos y gente que no teme a Dios, en tierras de Tremecén y Fez; les quitaron sus riquezas y pocos se vieron libres de estos males; en cambio los que fueron hacia Túnez y sus alrededores, llegaron casi todos sanos.
Ellos construyeron pueblos y poblaciones en sus territorios deshabitados; lo mismo hicieron en Tetuán, Salé y La Mitidja de Argel.
Entonces el sultán de Marruecos tomó a algunos de ellos como soldados armados. Se asentaron también en Salé. Otros se dedicaron al noble oficio de la guerra en el mar, siendo muy famosos ahora en defensa del Islam. Fortificaron el castillo de Salé y allí construyeron palacios, baños y casas, y allí están ahora.
Un grupo llegó a Estambul, a Egipto y a la Gran Siria, así como a otras regiones musulmanas. Actualmente así están los andalusíes40
2.6. Los últimos emigrantes moriscos al Mágreb (siglo XVIII)
Parecía que con la gran «limpieza étnica» de la expulsión de los moriscos de España, en 1609-1614, se había terminado el dilatado período de estancia de musulmanes de la Península Ibérica y en la Península Ibérica: nueve siglos (711-1614). Algunos historiadores (L. Cardaillac, M. García-Arenal, B. Vincent) han encontrado algunos documentos, principalmente inquísitoriales, en el que aparecen algunos moriscos en las décadas que siguieron a la gran expulsión, especialmente de moriscos exiliados que vuelven a España o son capturados en la mar y juzgados como apóstatas -curiosa lógica de la actitud inquisitorial, con bautizados forzosos que habían sido expulsados precisamente por no ser cristianos, sino musulmanes inconvertibles-, últimos emigrantes de ida y vuelta, en un azaroso Mediterráneo41.
A partir de esa época (hacia 1640, según Cardaillac42), ya sólo habría en España musulmanes esclavos, «prisioneros de guerra», hasta la supresión generalizada de la esclavitud en el siglo XIX43, viajeros (comerciantes y diplomáticos) y musulmanes españoles o establecidos en España modernamente, amparados por la libertad religiosa reconocida por los artículos 16 y 27 de la Constitución Española de 1978, por La Ley Orgánica de Libertad Religiosa (B.O.E. 20-07-1980) y específicamente por la Real Orden de 10 de noviembre de 1992, que reconoce el Acuerdo de Cooperación del Estado con la Comisión islámica de España (B.O.E. 12-11-1992), recientemente ampliado por lo que se refiere a los programas de religión musulmana de la enseñanza pública no universitaria (B.O.E. 18-01-1996)44. Esta misma legislación, al preservar la privacidad de la fe religiosa en el ordenamiento jurídico y administrativo español, no permite saber el número de musulmanes españoles y sólo aproximadamente el de los extranjeros, si son originarios de países de población mayoritariamente musulmana45
Pero un curioso episodio en el primer tercio del siglo XVIII (entre 1727 y 1732) va a renovar la situación de unos cripto-musulmanes, que se habían mantenido en secreto en la sociedad española granadina46. Descubiertos, por denuncias mutuas ante la Inquisición, se ven juzgados con bastante lenidad por unos tribunales inquisitoriales que hasta redactan un compendio de sus creencias islámicas, muy estructuradas con creencias cristianas compatibles con el Islam, para poder juzgarlos47. Integrados en su mayoría en la sociedad cristiana, con penas bastante leves, algunos de sus jefes fueron expulsados de Granada y se fugaron hacia la sociedad musulmana del Imperio Otomano (primero a Esmirna, importante puerto al oeste de Anatolia, y finalmente a Túnez, donde aún hoy en día sus descendientes forman parte de una gran familia burguesa de la capital, que hasta dio un primer ministro del Bey, en los años cuarenta)48.
El texto del diario del director del hospital español de Túnez, Francisco Ximénez, en el que se nos informa de la llegada de esos granadinos es muy significativo de su insersión en la sociedad musulmana. A fecha de 27 de julio de 1731, dice: «Ha escrito desde Esmirna a Cherife Castelli un cierto Moza La Joa que dice ser descendiente de los Albencerrajes, natural de Granada, alcaide de la torre del Aceitunero y puerta de Taxalanza, el cual fue por la Inquisición de Granada castigado por morisco a cuatro años de destierro y se ha pasado con sus hermanos y hermanas a Esmirna. De allí /p,214/ pretende venir a vivir a esta ciudad. Habrá cuatro años que fue castigado»49.
El nombre árabe del jefe de este grupo de inmigrantes permite hacer el lazo entre los granadinos y sus actuales descendientes tunecinos: Muza [Musa, Moisés] La Joa [«al-ijwa», actualmente escrito en francés Lakhoua, que significa «los hermanos», precisamente «sus hermanos y hermanas» del texto español, que les quedó como apellido]. Pero el texto de Francisco Ximénez añade más: informa que los granadinos refugiados en el Imperio Otomano se dirigen a Cherife Castelli, gran personalidad andalusí descendiente de los moriscos inmigrantes del XVII, riquísimo comerciante y hermano del Jaznadar o ministro de finanzas del Bey o gobernador de la provincia o regencia muy autónoma de Túnez; de ambos habla extensamente Ximénez en su diario.
Por tanto, aquí también, los emigrantes musulmanes de la Península se insertan en el Mágreb árabe gracias a la fraternidad de los andalusíes que les precedieron. Éstos lo hacen además con una solidaridad de clase, entre burgueses adinerados. Los granadinos expulsados eran emigrantes que pudieron salir con fuertes sumas de dinero, no sabemos cómo o por qué. Pero traían dinero, que invirtieron en una importante artesanía pre-industrial, la fabricación del «bonete tunecino» o «chechía», que era casi monopolio estatal llevado por los andalusíes del país, donde los Lakhoua llegaron a ser dirigentes, en el siglo XIV". El dinero fue un poderoso factor positivo de insersión para estos granadinos, como lo había sido ya antes, para los moriscos o los andalusíes en genera 51.
La conclusión de este episodio tardío de las emigraciones de musulmanes moriscos españoles permite una conclusión final: aunque las estructuras de acogida fueran generales y variadas, la actuación individual y la suerte diversa condicionaron también los resultados de la insersión, con más peso a veces que las estructuras de acogida de la sociedad receptora. Parece que es ley general de todas las emigraciones.
APÉNDICE :
REFLEXIONES SOBRE LA INSERSIÓN SOCIAL DE LOS ESPAÑOLES EN EL MÁGREB A PARTIR DE LA BAJA EDAD MEDIA
Este texto se presentó en Barcelona en 1975 y se publicó en las actas del // Congreso Internacional de Estudios sobre las Culturas del Mediterráneo Occidental, Barcelona, 1978, 161-165. Por la naturaleza y circunstancias de ese encuentro, en las tensiones internacionales y locales provocadas por la inminente muerte de Franco y sus sangrientos antecedentes, puede considerarse este texto como prácticamente inédito. Agradezco la ocasión que me permite publicarlo, con su vigencia y carácter autobiográfico, por mi experiencia de emigrante laboral español en el Mágreb, entre 1971 y 1974, en las universidades de Túnez, Argel y Orán.
En este Congreso consagrado a las emigraciones mediterráneas no es inútil estudiar las estructuras de acogida que tienen las sociedades50 a
donde van a parar los emigrantes. Esta comunicación, limitada al Mágreb islámico desde la baja Edad Media, pretende ser una reflexión que llega hasta la época moderna, a partir de datos conocidos y sin tener que exponer una bibliografía muy extensa y también muy conocida.
La sociedad musulmana en general tiene unas estructuras de integración generales, según las categorías de personas, desde el creyente musulmán, teóricamente en plenitud igualitaria de derechos, hasta el infiel politeísta o idólatra o el renegado, carentes absolutamente de derechos. Además, existen en la socidad musulmana otras categorías públicas, reconocidas más o menos por la sociedad y hasta a veces por la religión y el derecho: califa, experto en religión, ricos y pobres, hombres y mujeres, profesiones diversas, niños y ancianos, etc. A cada categoría de personas corresponde una forma de inserción social o de asimilación, que repercuten en la integración de los emigrantes.
Aquí vamos a estudiar: 1° la situación general de las inserciones de españoles o extranjeros en el Mágreb islámico, y 2° preguntarnos en particular por la acogida de una categoría especial de extranjeros, que siempre ha sido difícil de situar socialmente por parte de los historiadores: los convertidos al Islam o «renegados», extranjeros que quieren vivir en el Mágreb con plenitud de derechos (profesionales, cívicos, familiares...).
I. Esquemática descripción de los grupos de emigrantes en la Edad Media
Hay que empezar tomando como base de acogida la situación de la sociedad magrebí, es decir, la sociedad de los musulmanes árabes, ya que el elemento beréber no tiene, en general, más estructuras de inserción del extranjero que las que le proporciona una sociedad de estado según el modelo árabe-islámico. Se conoce algún caso de pacto entre españoles y tribus beréberes, pero ninguno de asimilación de europeos a la sociedad beréber, por lo menos en la Edad Media, a no ser que haya tomado el poder de un estado árabe-islámico.
El problema socio-lingüístico beréber surge también con un elemento étnico de origen hispánico, emigrado al Mágreb, el de los moriscos o andalusíes, de los siglos XVI-XVII. Sus costumbres diferentes y su desconocimiento casi general de la lengua árabe hicieron que formaran un grupo aparte que tardó un poco en asimilarse. Pero cuando aprendieron la lengua pasaron a formar un sub-grupo de la sociedad árabe-islámica del Mágreb, en la que sólo se distinguían por su origen, Al-Andalus, es decir, un territorio del mismo mundo árabe e islámico para la conciencia magrebí. Aquí el factor religioso común contribuyó decisivamente a su rápida y completa integración en el Mágreb.
Otros súbditos magrebíes que se integran de forma especial en la sociedad árab-islámica del Mágreb son los judíos. Aquí el factor de diferenciación no es sobre todo el lingüístico, sino precisamente el religioso. Como todos los «protegidos» (cristianos y judíos), pagan con cierta discriminación social el precio de la conservación especial de su fe y de sus tradiciones pre-islámicas, al interior de la sociedad árabe-musulmana. Están integrados en ella, pero de forma diferente a la de los musulmanes. Los judíos de origen español se fueron integrando al grupo de los judíos magrebíes, súbditos de los Estados musulmanes. Pero más adelante vinieron como súbditos italianos y hasta españoles, con estatuto de extranjero no asimilados.
Como extranjeros asimilados pueden considerarse los que abrazan la religión musulmana, llamados convertidos o renegados, según como se mire. El factor religioso ya no consituye un elemento que impida su integración en la sociedad musulmana y hasta el ejercer funciones técnicas y políticas importantes en ella. Con todo, quedan siempre -ellos y a veces sus sucesores- en el grupo de los «conversos» («ilch») de fe movediza. El estatuto pleno de musulmán les viene reconocido en principio, con precedentes gloriosos en tiempos del Profeta Mahoma. Hay muchos españoles en este caso en el Mágreb, ya desde la Edad Media.
Dentro de la categoría de los extranjeros asimilados están las mujeres no musulmanas esposas de musulman. Si se convierten al Islam, entran en la situación general de los convertidos. Pero la religión musulmana prevé que puedan conservar su fe, aunque no la puedan trasmitir a sus descendientes que, hijos de musulmán, seguirán la religión de su padre. En los casos que conocemos de españolas casadas con musulmanes en el Mágreb, pocas eran las que conservaron su religión, hasta tiempos muy recientes.
El caso de extranjero no musulmán que se casa con una musulmana está expresamente prohibido en el Islam. Por eso no puede ser un camino de integración, sino de rechazo por parte de la sociedad islámica.
Hay otros extranjeros que no se asimilan en la sociedad islámica, pero que conviven con ella. Son los extranjeros establecidos al amparo de tratados o capitulaciones, o como viajeros protegidos por las autoridades musulmanas y las representaciones «diplomáticas» aceptadas por ellas. Esta forma de presencia hispánica en el Mágreb tuvo pecisamente su época cumbre en la baja Edad Media. Comprendía a militares al servicio de los soberanos y algunos otros «técnicos», que a veces abrazaban el Islam para poder ejercer mejor su oficio y gozar de más influencia y derechos cívicos; comerciantes, más o menos estables; eclesiásticos, al servicio de la comunidad cristiana o encargados de hospitales y rescates de esclavos; los propios «diplomáticos» que eran también comerciantes y representaban al país y defendían a sus súbditos y sus intereses.
Finalmente hay unos extranjeros no asimilables por la sociedad islámica magrebí: los infieles politeístas o idólatras, en general; los musulmanes que reniegan de su religión; y los enemigos del Islam que hacen la guerra a los países musulmanes. Las dos primeras categorías apenas afectan a los españoles aunque se aplique a menudo a los cristianos el título de politeísta trinitario y que haya algún caso de magrebí musulmán bautizado en los territorios hispánicos. En cambio, todos los españoles vienen englobados en la categoría de enemigos del Islam que hay que combatir, sobre todo si ocupan territorios islámicos (Al-Andalus, Granada, plazas magrebíes). De ahí la constante y profunda inasimilación de las plazas o territorios ocupados por España en el Mágreb, aislados u hostigados por los musulmanes.
Una consecuencia de esta situación bélica lo constituye la situación del esclavo, botín de guerra del Mágreb, integrado a su manera en la sociedad magrebí. Tiene un estatuto intermediario entre el del politeísta enemigo del Islam (que habría que matar) y el del súbdito «protegido» (por ser cristiano), con algunos de los derechos de los extranjeros instalados (diplomáticos, comerciantes, eclesiásticos...) con los que mantiene múltiples relaciones.
Éstas son, esquemáticamente, las diversas categorías o formas de integración de los emigrantes extranjeros, particularmente españoles, en el Mágreb islámico. Al interior de cada grupo encontraríamos, evidentemente, nuevos subgrupos, según los lugares y las épocas.
2. Pervivencias actuales de esas formas de integración en el Mágreb
Estas formas de integración tradicionales del Mágreb islámico han sido profundamente modificadas en nuestros días, después del paréntesis colonial, bajo el impacto de la modernidad y de las nuevas relaciones internacionales. Pero presentan algunos caracteres de continuidad que merece le pena señalar. Vamos a ver, pues, qué queda de esas estructuras de acogida de emigrados hispánicos.
No hay emigraciones de musulmanes españoles. Los descendientes de los moriscos o andalusíes están perfectamente integrados en Mágreb árabe-islámico, aunque recuerden a menudo su origen hispánico.
La mayor parte de los judíos protegidos por España, o bien se han acogido a la nacionalidad francesa (por ejemplo, en Túnez) o han emigrado a España o a sus territorios (por ejemplo, en Marruecos). De todas formas, su situación en el Mágreb no es ya tan discriminatoria como en la Edad Media y gozan en teoría de la igualdad de derechos cívicos con sus conciudadanos musulmanes, a pesar de las inevitables incidencias del conflicto palestino-israelí y el peso de la tradición popular discriminatoria.
Las mujeres no musulmanas esposas de musulmanes son más numerosas en la actualidad en conservar su religión. Guardan en general también la nacionalidad española, con lo que gozan de la mayor parte de los derechos de los extranjeros establecidos en el país.
El caso de un no-musulmán casado con una musulmana sigue siendo muy difícilmente asimilable en el Mágreb. Si se convierte al Islam, sigue un proceso de integración familiar y social que le va insertando cada vez más en el Mágreb islámico. Si no, el fenómeno de rechazo le obliga a volver a su país, con o sin su mujer.
El caso de los extranjeros establecidos, más o menos provisionalmente, en el Mágreb se ha extendido mucho y goza de múltiples garantías internancionales, concordes con la evolución de los tiempos, pero en la misma línea de convivencia no-asimilable en la Edad Media. Esta situación tiende a asemejarse a la instalación de todos los emigrantes de un país a otro, en el mundo. Son técnicos diversos -en quienes la conversión al Islam es rarísima-; eclesiásticos al servicio de las comunidades cristianas, en obras de beneficencia -sobre todo son religiosas femeninas- y en la enseñanza, que les convierte en realidad en técnicos; en empresa privadas o públicas españolas, que forman a veces equipos de de trabajo técnico, cuando se trata no sólo de vender productos, sino de vender fábricas u obras públicas, generalmente en cooperación hispano-magrebí; diplomáticos o servicios asimilados; etc.
Hay que notar que servicios medievales, como los apoyos militares, se hacen ahora a nivel más indirecto, en el marco diplomático o de organismos internacionales especializados y no enviando tropas. También el número de viajeros-turistas ha aumentado con las facilidades de desplazamiento.
Finalmente, los esclavos botín de guerra han desaparecido. La situación internacional de paz ha seguido a las guerras de ocupación colonial y de independencia. Los colonos, fruto de la situación política anterior, se han visto obligados a emigrar poco a poco, gracias a múltiples limitaciones que han ido imponiendo las leyes magrebíes, que excluyen prácticamente a los extranjeros de la propiedad inmobiliaria, sobre todo rural.
Después de este breve panorama que aclara los conceptos con el análisis de las situaciones, se puede uno preguntar mejor por la diferente inserción, en la Edad Media y en nuestros días, del extranjero que quiere gozar de plenitud de derechos en el Mágreb, especialmente si quiere trabajar allí como técnico con su competencia profesional. Es tema complejo, íntimamente ligado por una parte a la situación de falta de técnicos magrebíes que obliga a los diversos países magrebíes a instaurar una «cooperación técnica» con europeos después de la Independencia, y por otra parte, a la ya sensible situación de paro laboral que afecta ya a algunos sectores profesionales, empezando por la enseñanza.
Pero se puede resumir diciendo que el técnico extranjero en la Edad Media, para ejercer plenamente su trabajo y gozar de todos los derechos cívicos en el país, tenía que integrarse en la sociedad magrebí por la conversión al Islam. Esta condición no es necesaria actualmente, salvo para casarse con una musulmana. Eso indicaría que la estructura islámica tradicional se ha conservado más en el estatuto familiar que en la vida pública y profesional. Pero hay que reconocer que, respetando una serie de libertades que el extranjero tiene al igual que los magrebíes, el estatuto de extranjero que tiene el técnico se hace inasimilable en la sociedad magrebí y hace muy inestable su presencia en el Mágreb. Hasta su conversión al Islam, fuente de una casi total igualdad de derecho y de una integración social plena en la Edad Media, no le asegura actualmente una inserción permanente en el Mágreb con la concesión de la nacionalidad -naturalización-.
Se puede, pues, concluir diciendo que "las emigraciones españolas en el Mágreb tienden a ser de una sola clase: la de los extranjeros en situación temporal, con plenitud de derechos, pero con inserción limitada".
Míkel de Epalza fue Catedrático de Estudios Árabes e Islámicos. Universidad de Alicante.
NOTAS:
1 Véase mi pequeño estudio sobre el paso de la noción árabe-islámica de «rizq» («ayuda divina» en los viajes) a la moderna de «riesgo» («peligro») a través del italiano medieval y de los seguros contra los riesgos marítimos en el Mediterráneo, en M. de Epalza, «Notas sobre la etimología árabe-islámica de «riesgo»», Sharq Al-Ándalus. Estudios Árabes, Alicante, 6, 1989, 185-192.
2 «Árabes» por la lengua, «musulmanes» por la religión, los «andalusíes» de Al-Ándalus [Península Ibérica musulmana] y los «magrebíes» del Mágreb o Magreb [Noroeste de África] tenían grupos específicos: lingüísticamente, los «hispanos» que hablaban una lengua derivada del latín, llamada actualmente «lengua mozárabe», y los «beréberes» o amazigh que hablaban -y hablan aún hoy en día- diversas formas del «beréber» o «bereber»; religiosamente, también coexistieron durante muchos siglos con los «musulmanes sunníes», generalmente dominantes y cada vez más mayoritarios, comunidades reconocidas de «judíos» y de «cristianos» [llamados actualmente «mozárabes»], con otros grupos musulmanes (fatimíes y otros movimientos chiíes, jarichíes, bargawata, etc.). Ver para estas nociones, y para la realidad actual del Islam, M. de Epalza (dir.), L'Islam d'avui, de dema i de sempre, Barcelona, 1994.
3 Natural de Tánger (1304-1377), sus relatos de viaje fueron recogidos por el andalusí IbnChuzái de Granada y han sido traducidos al castellano: S. Fanjul; F. Arbós, Ibn Battúta. A través del Islam, Madrid, 1981. El más importante barco de las navieras libias lleva el nombre de Ibn Batuta, símbolo emblemático de los viajes árabes.
4 El mejor representante de este género es seguramente el escritor andalusí, de la región valenciana, Ibn-Chubair (1145-1217), cuya obra ha sido también traducida al castellano: F. Maíllo, Ibn Yubayr. A través del Oriente. El siglo XII ante los ojos. Rada, Barcelona, 1988.
5 Hay que recordar el vocabulario histórico general para designar a los musulmanes peninsulares: «andalusíes» u originarios de Al-Ándalus, Hispania islamizada o la Península Ibérica bajo el poder político musulmán; «mudéjares», cuando viven en los reinos cristianos hispanos (Aragón, Castilla, Navarra, Portugal), en comunidades o «aljamas» reconocidas oficialmente como musulmanas; «moriscos», cuando esos mudéjares son obligados a convertirse al cristianismo, aunque la mayoría de ellos se mantuvieran fieles a su identidad islámica, secretamente, como cripto-musulmanes. Otros nombres medievales -como «agarenos», «ismaelitas», «sarracenos»-, que designan a los musulmanes en general, no son de uso actual. Tampoco «moro», por su sentido despectivo.
Geográficamente, el Mágreb o Magreb designa todo el occidente musulmán o Norte de África occidental: la UMA (Unión del Mágreb Árabe) reúne a los estados de Libia, Tunisia, Argelia, Marruecos y Mauritania. Todos sus habitantes pueden llamarse, por tanto, «magrebíes». Pero hay a veces cierta ambigüedad, en nuestros días, porque los marroquíes o «habitantes del Reino de Marruecos» (denominación en todas las lenguas europeas, que viene de su capital tradicional, Marraquesh) se llaman a sí mismos «magrebíes» (del nombre árabe actual de su país, El Mágreb o Reino Magrebí). La prensa va usando cada vez más «magrebí» para designar a los marroquíes (por ejemplo, «el paso de los magrebíes por España», en verano) dejando el término más tradicional de «marroquí» y creando equívocos con los demás magrebíes. Este equívoco es bastante consciente en muchos musulmanes de Ceuta y Melilla, «magrebíes» en castellano y «marroquíes» en árabe».
Sobre los moriscos en general, ver las síntesis clásicas de A. Domínguez Ortiz - B. Vincent, Historia de los moriscos. Vida y tragedia de una minoría, Madrid, 1978, 1985, 1989, y M. de Epalza, Los moriscos antes y después de la expulsión, Madrid, 1992, 1994. Sobre la expulsión, últimas aportaciones científicas en M. de Epalza (dir.), L'expulsió deis moriscos. Conseqüéncies en el món islamic i en el món cristiá, Barcelona, 1994 [43 ponencias y comunicaciones, en castellano, catalán, francés e inglés]. Para estar al día de las publicaciones científicas sobre mudéjares y moriscos, aportación bibliográfica en la revista Sharq Al-Ándalus. Estudios Árabes, de la Universidad de Alicante [desde vol. 1, 1984, actualmente con el Centro de Estudios Mudéjares con el subtítulo Estudios Mudéjares y Moriscos, desde el vol. 12, 1995], y en el boletín Aljamía [en colaboración con la Universidad de Oviedo, desde 1989], por los Dres. L.F. Bernabé Pons, M. de Epalza y F. Franco Sánchez, del área de Estudios Árabes e Islámicos, de la Universidad de Alicante.
Ver unas reflexiones sobre el tema en M. de Epalza, «Reflexiones sobre la insersión social de los españoles en el Mágreb a partir de la Baja Edad Media», Segundo Congreso Internacional de Estudios sobre las Culturas del Mediterráneo Occidental, Barcelona, 1978, 171-165 [reproducido como apéndice al final de este artículo]. Ver también mi participación en los dos volúmenes de Destierros aragoneses, Zaragoza, 1988, 217-227, ambos muy interesantes para nuestro tema: «Caracterización del exilio musulmán: la voz de mudéjares y moriscos».
8 Ver M. de Epalza, «Costas alicantinas y costas magrebíes: el espacio marítimo musulmán según los textos árabes», Sharq Al-Ándalus. Estudios Árabes, 3, 1986, 25-31; 4, 1987, 4548.
9 Ver ritual de las ceremonias en E M. Pareja, Islamología, Madrid, 1952-1954, tomo II, 538546; A. Machordoms Comín, Las Columnas del Islam, Madrid, 1979, 60-69; y en cualquier tratado sobre los ritos y preceptos islámicos.
10 Ver, por ejemplo, magnífica visión general de A. Hourani, Historia de los pueblos árabes, Barcelona, 1992, o los estudios más especializados reunidos por J.L. Corral Lafuente; M. de Epalza, La Ciudad Islámica, Zaragoza, 1991.
11 Ver magnífica novela que retrata bien el inicio de estos éxodos, del Profesor de Historia Medieval de la Universidad de Zaragoza Dr. José Luis Corral Lafuente, El Salón Dorado, Barcelona, EDHASA, 1996.
12 Ver el caso emblemático del valenciano Ibn-Al-Abbar, que intervino en la rendición de la ciudad de Valencia (1238), de cuyo soberano era ministro, y que pasó a tener varios cargos en la corte de Túnez, donde acabó condenado a muerte. Estudios variados y muy completos en M. de Epalza; J. Huguet (coords.), Ibn Al-Abbar. Polític i escriptor árab valenciá (11991260), Valencia, 1990 [17 estudios, en castellano, en catalán-valenciano y en francés]. Ver también M. de Epalza, «Las influencias de las culturas de Al-Ándalus en el Mágreb», en M.A. Roque (ed.), Las culturas del Magreb, Madrid, 1994, 75-89 (trad. catalana, en Les cultures del Magreb, Barcelona, 1994, 63-73).
13 Ver dos curiosos relatos autobiográficos de viajeros peregrinos, pero también con un magrebí instalado en Aragón y un alfaquí mudéjar que prepara su emigración y acaba instalándose en el reino de Túnez, todos pasando por Mallorca y Tortosa, en M. de Epalza, «Dos textos moriscos bilingües (árabe y castellano) de viajes a Oriente (1395 y 1407-1412)», HespérisTamuda, Rabat, XX-XXI, 1982-1983, 25-112. Para último período de los mudéjares de Valencia, antes de su obligada conversión de 1526, ver E. Salvador, «Sobre la emigración mudéjar a Berbería. El tránsito legal a través del puerto de Valencia durante el primer cuarto del siglo XVI», Estudis, Valencia, 4, 1975, 39-68, y M.D. Meyerson, Els musulmana de Valéncia en l'época de Ferran i Isabel. Entre la coexisténcia i la croada, Valencia, 1994.
14 Ver los clásicos estudios de M.A. Ladero Quesada y J.E. López de Coca, renovados con ocasión de la conmemoración del V Centenario por obras colectivas que han dirigido estos dos catedráticos de Historia Medieval, de las Universidades Complutense y de Málaga, respectivamente.
15 Visiones generales de esa problemática de siglos y de la actualidad, en M.I. Fierro, «La emigración en el Islam: Conceptos antiguos, nuevos problemas», Awráq, Madrid, 12, 1991, 1141; K. Abou al-Fadl, «Islamic law and Muslim minorities: the juristic discourse on Muslim minorities from the second/eight to the eleventh/seventeenth centuries», !Islamic Law and Society, Leiden, 1, 1994, 141-187; A. Carmona, «Los nuevos mudéjares: la shari'a y los musulmanes en sociedades no-islámicas», en M. Abumálham (ed.), Comunidades islámicas en Europa, Madrid, 1995, 49-59.
16 Ver mi conferencia innaugural del I Coloquio «La Voz de Mudéjares y Moriscos», Universidad de Alicante (marzo 1995): M. de Epalza, «La voz oficial de los musulmanes hispanos, mudéjares y moriscos, a sus autoridades cristianas: cuatro documentos, en árabe, en castellano y en catalán-valenciano», Sharq Al-Ándalus..., 12, 1995, en prensa.
17 Ver A.M. Turki, «Consultation juridique d'Al-lmám Al-Mazári sur le cas des musulmans vivant en Sicile sous l'autorité des Normands», Mélanges de l'Université Saint-Joseph, Beirut, L, 1984, 691-704, y «Pour ou contre la légalité du séjour des musulmans en territoire reconquis par les chrétiens: Justification doctrinale et réalité historique», Religiongesprüche im Mittelalter (B. Lewis - F. Niewóhner edits.), Wiesbaden, 1992, 305-323, confirmado -en la práctica- en el estudio de H. Bresc, «Pantelleria entre l'Islam et la Chrétienté», Les Cahiers de Tunisie, Túnez, XIX/75-76, 1971, 105-128. Reciente edición completa de las fatwas de Al-Mazari, por el profesor T. Al-Ma'múri, Fatáwá...al-Mazári, Túnez, 1994.
Ver H. Bouzineb, «Respuestas de jurisconsultos maghrebíes en torno a la inmigración de musulmanes hispánicos», Hespéris-Tamuda, Rabat, 26-27, 1988-1989, 53-66; P.S. Van Koningsveld; G.A. Wiegers, «The Islamic statute of the Mudejars in the light of a new source», Al-Qantara, Madrid, XVII/1, 1996, 19-58.
19 Ver L. Sabbagh, «La religion des Moriscos entre deux fatwas», en L. Cardaillac; B. Vincent; P. Dedieu (editores), Les Morisques et temps, París, 1983, 45-56, y trabajos anteriormente citados sobre este tema.
20 Ver G. Gozálbes Busto, Al-Mandan, El Granadino, .fundador de Tetuán, Granada, 1988, 1996.
21 Ver una excelente y reciente presentación general de la historia de Tetuán, por J.L. Miége; M. Benaboud; N. Erzini, Tétouan. Ville andalouse marocaine, París, 1996, y A. Djbilou, Tánger, puerta de África. Antología de textos literarios hispánicos, 1860-1960, Madrid, 1989. Sobre la Ceuta musulmana y sus restos arqueológicos, hasta nuestros días, excelente y también reciente estudio de C. Gozálbes Cravioto, El urbanismo religioso y cultural de Ceuta en la Edad Media, Ceuta, 1995.
22 Ver resumen de la historia de estas ocupaciones, con el catálogo y principales reproducciones hispánicas conservadas de esas ciudades, en M. de Epalza; J.B. Vilar, Planos y mapas hispánicos de Argelia (siglos XVI-XVIII), Madrid, 1988.
23 Traducción en G. Gozábes Busto, o.c., 26-27.
24 " Ver M. de Epalza, Los moriscos, antes y después..., pp. 137-258.
25 En la abundante bibliografía sobre la expedición, ver M. García-Arenal, «Los andalusíes en el ejército Sa' adi: un intento de golpe de estado contra Ahmad Al-Mansúr Al.Dhanabi (1578)», Al-Qantara, Madrid, V, 1984, I. Diadié Haidara, El bajá Yawdar y la conquista saadí del Songhay (1591 - 1569), Almería, 1993, e interpretación global de la política de esos moriscos o andalusíes en M. Epalza, Los moriscos antes y después..., pp. 294-295.
26 Ver M. de Epalza, Los moriscos antes y después..., pp. 205-259, y N. Saidouni, «Les Morisques dans la province d'Alger «Dar es-Soltan» pendant les XVIe et XVIIe siécles», en M. de Epalza (coord.), L'exili deis moriscos..., 140-146.
27 Ver, para este proceso de expulsión H. Lapeyre, Géographie de l'Expugne morisque, París, 1959 [traducción española, sin índices, Valencia, 1986]; M. de Epalza, Los moriscos antes..., pp. 119-129 y M. de Epalza (coord.), deis moriscos..., así como sus fuentes.
28 La política de los moriscos con Francia y su travesía por el país, cuando la gran expulsión final, han sido estudiadas por L. Cardaillac, G. Turbet-Delof y otros, con escasa pero muy interesante documentación (ver en particular capítulos de L. Cardaillac y de M. de Epalza, en Receuil d'études..., pp. 89-113 y 150-186, respectivamente) 29
29 Ver estudio de C. Samelli, en Receuil d'études..., pp. 348-257; edición completa y estudio de su relato de viaje autobiográfico en árabe, por M. Razuq (Casablanca, 1987); y otros estudios de J. Penella, C. Samelli y G. Wiegers.
30 Ver documentada obra de conjunto, a partir de su tesis doctoral, de G. Gozálvez Busto, «La república andaluza de Rabat en el siglo XVII», Cuadernos de la Biblioteca Española de Tetuán, Tetuán, 9-10, 1974, 7-469, y volumen en árabe de M. Razuq sobre las emigraciones de los moriscos, Casablanca, 1989.
31 Ver M. de Epalza, «Les Ottomans et l'insertion au Maghreb des Andalous expulsés d'Espagne au XVIIe siécle», Revue d'Histoire Maghrébine, Túnez, 31-32- 1983, 165-173; trabajos de A. Temimi y artículos sobre la esperanza morisca en los turcos de L. Cardaillac y M. Sánchez.
32 Ver N. As-Sa'idúni, «La colonia andalusí en Argelia: su importancia demográfica, actividad económica, situación social», Awráq, Madrid, 4, 1981, 111-124, 234 (en árabe, con resumen en castellano), y artículo antes citado.
33 Síntesis en M. de Epalza, Los moriscos antes y después..., 205-259; conjuntos de monografías en M. de Epalza; R. Petit (edits.), o.c. y S.M. Zbiss..., o.c.
34 Ver reciente monografía de E. Lapiedra, «Los moriscos en Libia», L'expulsió deis moriscos..., 369-371.
35 Ver A. A. Abdel-Rahim, «Al-Moriscos Settlement in Egypt through the Religious Court Documents of The Ottoman Age», en L'expulsió deis moriscos..., 158-163.
36 Ver A. Temimi, «Politique Ottomane face á l'implanatation et á l'insertion des Morisques en Anatolie», en L'expulsió deis moriscos..., 164-170.
37 Ver datos en M. de Epalza, «Moriscos y andalusíes en Túnez en el siglo XVII», Al-Andalus, Madrid, 34, 1969, 284-293, con versión en francés M. de Epalza; R. Petit, o.c., 175-181,
38 Ver A. Temimi, o.c. Tengo un pequeño estudio, a partir de los documentos publicados por Temimi, que muestra el doble carácter de las colonias moriscas según la política otomana, evidentes en el caso de Anatolia: son colonias agrícolas alrededor de las ciudades y son colonias en zonas militares de frontera, terrestre o marítima. Tendría que salir publicado en la revista Sharq Al-Ándalus. Estudios Mudéjares y Moriscos, Teruel, 13, 1996.
39 Ver M. de Epalza, «Léxico y onomástica hispánicos de los moriscos, conservados en Tunisia», ponencia del VII Simposio de Estudios Mudéjares (Teruel, 1996), en prensa.
40 Traducción con comentario en M. de Epalza, Los moriscos antes y después..., p. 148.
41 Ver reciente publicación de B. Vincent, «Et quelques voix de plus: de Francisco Núñez Muley á Fatima Ratal», Sharq Al-Ándalus. Estudios Mudéjares y Moriscos, Teruel, 12, 1995, en prensa.
42 Ver L. CARDAILLAC, Moriscos y Cristianos: un enfrentamiento polémico (1492-1640), Madrid, 1979. 43
43 Ver su supresión, al menos en lo referente a los marroquíes y de posesión estatal, con los reales acuerdos entre Carlos III y Sidi Muhámmad Ben-Abdallah, a fines del siglo XVIII, estudiados minuciosamente por R. Lourido y por M. Arribas Paláu, en un proceso político global de pacificación entre España y los países musulmanes, presentado por M. de Epalza, «Intereses árabes e intereses españoles en las paces hispano musulmanas del XVIII», Anales de Historia Contemporánea, Murcia, 1, 1982, 7-17. 44
44 Ver presentación general de la problemática en M. Abumalham (edit.), Comunidades islámicas en Europa, Madrid, 1995. Recientemente, J. MORERAS, «Les Accords de Coopération entre 1' État Espagnol et la Commission Islamique d'Espagne», Revue Européenne des Migrations Internationales, 12/1, 1996, 77-89. 45
45 Sobre los musulmanes españoles, la bibliografía es escasa: ver A. Abumálham (edit.), o.c. [especialmente capítulos de Losada, Tatary y Valencia]; M. de Epalza (dir.), L'Islam d'avui... [especialmente capítulo de Epalza y Moreras]; F. López Barrios; M. J. Haguerty, Murieron para vivir. El resurgimiento del Islam y el Sufismo en España, Barcelona, 1983; y reciente encuesta de T. Roland-Gosselin, Convertis á l'Islam. Aujourd'hui, á Séville , Paris (Fondation pour le progrés de l'homme, vol. 73), 1995 (con prólogo de M. dé Epalza, «Situations de «conversion» socioreligieuse dans les sociétés ibériques (Ve-XXe s.)», pp.5-13, 121-122.
46 Ver presentación general, bien documentada, de Rafael de Lera García, «Cripto-Musulmanes ante la Inquisición granadina en el s. XVIII», Hispania Sacra, Madrid, XXXVI, 1984, 1-55, así como en su tesis doctoral aún inédita. 47
47 Ver este curiosísimo texto, cuya lógica interna no ha sido aún suficientemente estudiada, en M.S. Carrasco Urgoiti; M. de Epalza, «El manuscrito «Errores de los moriscos de Granada» (Un núcleo criptomusulmán del siglo XVIII)», Fontes Rerum Balearum, Palma de Mallorca, III, 1979-1980, 235-247.
48 » Ver M. de EPALZA, «Nuevos documentos sobre descendientes de moriscos en Túnez en el siglo XVIII», Studia historica et philologica in honorem M. Badlori, Roma, 1984, 195-228, especialmente pp. 213-4.
49 Ver nota precedente.
50 P. Teyssier, «Le vocabulaire d'origine espagnole dans l'industrie tunisienne de la chéchia», Mélanges offerts ú Marcel Bataillon par les hispanistes français, Bulletin Hispanique, Bordeaux, LXIV bis, 1962, 732-740, reproducido en M. de Epalza; R. Petit, o.c., 308-316.
51 Ver D. Brahimi, «Quelques jugements sur les Maures Andalous dans les régences turques au XVIIe siécle», Revue d'histoire et de la civilisation du Maghreb, Argel, 9, 1970, 39-51, reproducido en M. de Epalza; R. Petit, o.p., 135-149, y M. de Epalza, «Moriscos y andalusíes en Túnez en el siglo XVII», Al-Andalus, Madrid, XXVIII, 1969, 247-327, traducido en M. de Epalza; R. Petit, o.c., 150-186.
52 Estas reflexiones sobre las estructuras magrebíes para recibir a españoles o hispanos peninsulares en general, a lo largo de siglos de historia, nacieron de mis personales estancias en el Mágreb, entre 1963 y 1974, de estudios históricos generales y experiencia de la realidad social magrebí, de mis estudios y publicaciones sobre los moriscos emigrados a Túnez y del estudio del más ilustre emigrante hispano en el Mágreb el franciscano mallorquín Anselm Turmeda, convertido al Islam a finales del siglo XIV, funcionario de los soberanos tunecinos y escritor en catalán y en árabe (con su nombre árabe de Abdállah At-Tarchumán), puya tumba es un monumento en la capital, con una placa de las municipalidades de Túnez y de Palma de Mallorca. Fue objeto de mi tesis doctoral, defendida en la Universidad de Barcelona en 1967, publicada en Roma en 1971 y reeditada en Madrid en 1994: Fray Anselm Turmeda (`Abdallah al-Taryumán) y su polémica islamo-cristiana.
Fonte digitale. http://www.webislam.com/?idt=14736
El flujo actual de emigrantes laborales del Norte de África a Europa Occidental -tema específico en este volumen de la revista «Alternativas. Cuadernos de Trabajo Social», de la Universidad de Alicante- ha sido evocado como «el retorno de los moriscos» (Bernabé López García), en referencia a la expulsión general de los últimos musulmanes de la Península, que habían sido obligados a hacerse cristianos a principios del siglo XVI y fueron obligados a salir de España a principios del XVII, acabando instalándose en la sociedad del Norte de África la mayoría de los que consiguieron sobrevivir a la odisea de los viajes de la expulsión'.
En este pequeño estudio, se van a presentar las principales estructuras de acogida que tuvieron los musulmanes peninsulares en las sociedades musulmanas, especialmente en el Mágreb y con especial referencia a los moriscos expulsados de España a principios del siglo XVII (1609-1614)6.
Pero hay que saber situar este episodio de la historia de las migraciones mediterráneas en el contexto de su época y, en particular, de las emigraciones hispánicas en la sociedad magrebí7.
1. ESTRUCTURAS DE ACOGIDA TRADICIONALES DE LOS ANDALUSÍES EN EL MÁGREB
Sintetizando más de nueve siglos de relaciones entre Al-Ándalus y el Mágreb, «entre las dos orillas»8, como lo expresaban en árabe los escritores medievales (desde la llegada de los musulmanes a Hispania, en 711, a la expulsión final, en 1614), las estructuras tradicionales de acogida de los andalusíes en las sociedades magrebíes son bastante constantes. Serán la base -no la única, como se verá- de las estructuras de acogida de los moriscos, en la masiva inmigración que provocó la gran expulsión española del XVII.
1.1. Infraestructuctura del deber islámico de la Peregrinación
Lo primero que hay que decir es que la sociedad musulmana en general tiene tradicionalmente importantes infraestructuras de acogida para los viajeros. Es una sociedad de viajeros, por la obligación que tienen los musulmanes de realizar la Peregrinación a La Meca (Makka), al menos una vez en la vida, si tienen la posibilidad de hacerlo'.
1.2. Carácter urbano y cosmopolita de la religión islámica
Por otra parte, la sociedad islámica, estructurada por la fe del Islam, es una sociedad urbana y comercial, que heredó de las sociedades urbanas que le precedieron (especialmente las herederas a su vez de las civilizaciones romana y persa) una importante red viaria -que supieron conservar y desarrollar- de calzadas y caminos terrestres, de navegación marítima especializada en el cabotaje y de acogida de viajeros.
Las estructuras sociales de acogida de los foráneos estaban favorecidas también por la evolución de la sociedad musulmana hacia un cosmopolitismo nuevo. La religión musulmana, sin suprimir los lazos étnicos y hasta tribales de las sociedades precedentes, desarrolló unas sociedades cosmopolitas en las ciudades de su imperio -ya desde La Meca y Medina, y a pesar de las fragmentaciones políticas-, que favorecían la insersión de los extranjeros 10.
1.3. Los andalusíes, viajeros al Mágreb y Oriente
Los andalusíes, desde sus inicios, viajaron mucho a Oriente, por mar directamente o visitando diversas regiones magrebíes (los musulmanes, porque tenían muchas veces raíces familiares en el Mágreb o en el Máshreq u Oriente árabe, o por intereses científicos y comerciales en las principales ciudades magrebíes, como Kairawán, Túnez, Bona/ Annaba, Buj ía/B idjaia, Tremecén/Tlemcén, Fez, Marráquesh...; los judíos, por sus relaciones con sus correligionarios magrebíes u orientales; y hasta los nobles visigodos cristianos del momento de la conquista, que visitaron a los califas de Damasco por diversas razones políticas, como el obispo Oppas, la princesa Sara, el noble Teodomiro, etc.).
A la vuelta de la peregrinación, muchos andalusíes se quedaban en las diversas ciudades del Máshreq o del Mágreb, formando colonias de andalusíes que acogían con especial hospitalidad a los nuevos viajeros de Al-Andalus. Estas colonias están perfectamente documentadas en ciudades como Alejandría, El Cairo, La Meca, Medina, Bagdad, Damasco, Jerusalén y las ya mencionadas ciudades magrebíes.
1.4. Emigraciones por conquistas hispano-cristianas (ss.XII-XV)
Todas estas infraestructuras medievales fueron muy importantes para acoger a los andalusíes cuando los avances de las conquistas cristianas fueron reduciendo los territorios de dominio político musulmán.
Esas conquistas fueron desplazando poblaciones musulmanas hacia el Mágreb, especialmente con la ocupación cristiana de ciudades, que dejaban sin poder a las clases dirigentes árabes. Las caídas de Toledo (1085), de Zaragoza (1118) y de las últimas ciudades del Valle del Ebro, Tortosa y Lleida (1149), etc., iniciaron un fenómeno de emigración de poblaciones, tanto hacia el sur de Al-Ándalus como hacia el vecino Mágreb, atraídos especialmente por la nueva sede del poder, Marrakech, capital -desde mediados del siglo XI- de las dinastías almorávide y almohade, que gobernaban lo que quedaba del territorio musulmán de Al-Ándalus.
Cuando las grandes conquisas cristianas del siglo XIII -Baleares, Valencia, Murcia, Valle del Guadalquivir, Algarve portugués-, la emigración andalusí ya fue masiva, tanto al reino de Granada de la dinastía nazarí como, sobre todo, a los reinos magrebíes post-almohades de Marrakesh, Fez, Tremecén y Túnez. Los grandes funcionarios de esos reinos post-almohades eran generalmente de origen andalusí y pesaron mucho en la transmisión de los modelos culturales andalusíes en las sociedades magrebíes12. A lo largo de los siglos XIII al XV (hasta la caída del reino de Granada, 1482-1492) el goteo de emigrantes andalusíes hacia el Mágreb, tanto del reino nazarí musulmán de Granada como de musulmanes mudéjares de los reinos hispanos cristianos, fue constante, aprovechando precisamente las anteriormente citadas infraestructuras de acogida.
La emigración que siguió a la guerra de conquista de Granada sólo nos es conocida parcialmente, por la escasez de las fuentes y por la falta de estudios globales científicos. A pesar de la importante masa de emigrantes, frenada por disposiciones de Reyes Católicos (privilegios a nobles granadinos, conversiones forzosas al cristianismo, etc.), las estructuras de insersión en el Mágreb, heredadas de siglos pasados, debieron funcionar, porque pocos problemas de adaptación quedan registrados en las fuentes históricas.
1.5. Emigraciones peninsulares a Marruecos y Argelia (s.XVI) A. De la obligación, o no, de emigrar a territorio musulmán15
La obligación de no permanecer en una sociedad no-musulmana y de emigrar de ella hacia territorios donde reina la ley islámica es un tema de cierta importancia en el Islam, que da prioridad al vivir en una sociedad islámica, como la que creó el profeta Mahoma/Muhámmad en Medina, frente a otras posibilidades como las de las comunidades que él mismo envió desde La Meca, antes de su hégira a Medina.
La situación de musulmanes «emigrantes» a sociedades no-musulmanas se dio pronto en el Islam, por los numerosos viajeros que hacían comercio o estaban de embajadas muy oficiales -o las dos cosas a la vez- fuera de territorios gobernados por autoridades musulmanas. Cómo vivir en esas sociedades, si se mantienen en ellas los musulmanes y sus comunidades, ha dado lugar a una producción teológica islámica muy particular, con una doble tendencia: la más teórica y rigorista, que defiende la absoluta obligación de emigrar a tierras de musulmanes, y la más realista y permisiva, que se centra en las formas de vivir y convivir en sociedades gobernadas por no-musulmanes.
Este tema fue particularmente importante en el Occidente musulmán, a medida que avanzaban las conquistas cristianas en el Mediterráneo occidental (Sicilia, Hispania). El jurista siciliano Al-Mazari, refugiado en Túnez tras la conquista cristiana de la isla (s.XI), ha dejado uno de los textos más antiguos y razonados sobre el tema. Otros textos declarativos (fatwas) se habían dado tras la ocupación cristiana de la mayor parte de los territorios de Al-Andalus, a mediados del siglo XIII. Pero fue la conquista cristiana de Granada y las sucesivas obligaciones de convertirse al cristianismo de los musulmanes «mudéjares» de los reinos hispanos (Portugal, 1497; Granada, 1500; Corona de Castilla, 1502; Navarra, después de 1512; Corona de Aragón, 1526) lo que iba a agudizar la tensión entre las dos tendencias9.
Los historiadores modernos han dilucidado que estas disputas teológicas islámicas venían muy condicionadas por posturas políticas: los partidarios de la emigración obligatoria miraban el reforzamiento del Islam en los estados musulmanes del Mágreb que acogerían a esos futuros soldados, mientras que los partidarios de permanecer en las sociedades hispanas miraban las posibilidades de formar unas comunidades de musulmanes también hispanos, germen de conversiones y de futuras conquistas del poder islámico en España.
Tema político fundamental tenía que ser precisamente la capacidad de estructuras de acogida en el Mágreb para esos musulmanes de las sociedades hispanas, en el siglo XVI, como se puede ver en dos ejemplos bien documentados, en Marruecos y en Argelia.
B. La reconstrucción militar de Tetuán por los granadinos de AlMándari
Una de las más importantes consecuencias de la caída de Granada, para la sociedad magrebí, fue la reconstrucción de la ciudad de Tetuán, por el dirigente granadino Al-Mándari, que supo atraer a muchos de sus compatriotas, emigrantes del ocupado Reino nazarí de Granada.
Tetuán era -y sigue siendo- la puerta de la región montañosa del Rif, que tiene al sur, y domina la llanura costera que tiene al norte, con la desembocadura del río Marfil y finalmente la península de Ceuta, frente a las costas hispánicas. Por su situación estratégica, había sido víctima de una expedición cristiana, en 1437, que la arrasó, mientras que su vecina Ceuta era conquistada por los portugueses (1415) y pasaría mucho más tarde a los españoles (1640)21.
La labor de Al-Mándari consistió precisamente en crear una estructura de acogida, civil y militar, en el Mágreb. Construyó -o reconstruyó- una ciudad, con todas sus estructuras urbanas islámicas, para el establecimiento de una población musulmana inmigrante. Pero también reforzó con esos inmigrantes las estructuras militares defensivas de una sociedad magrebí muy seriamente amenazada por el fuerte poder expansivo de los reinos hispanos, en el Atlántico y en el Mediterráneo desde Melilla a Trípoli, en menos de quince arios".
León El Africano, contemporáneo y compatriota de Al-Mándari, narra brevemente su gesta, con detalles que subrayan su acción de acogida e integración de musulmanes de Al-Andalus en el Mágreb, en sus aspectos militares y civiles:
«...Obtuvo autorización para restablecer el gobierno de la ciudad y beneficiarse de él. Reconstruyó toda las murallas de Tetuán, construyendo una fortaleza muy sólida, y ciñó de fosos esa fortaleza, así como la muralla de la ciudad. Seguidamente guerreó sin parar con los portugueses. A menudo causó mucho mal a Ceuta, Alcazarseguer y Tánger. Tenía, en efecto, permanentemente consigo trescientos jinetes, todos granadinos y la flor de Granada...Ese hombre fue extremadamente generoso, al punto de recibir a todo extranjero que pasaba por la ciudad...».
De este y otros ejemplos puede deducirse que la estructura de la sociedad magrebí para acoger a los inmigrantes musulmanes de la Península Ibérica, en esa época, era una estructura urbana con sus ciudades cosmopolitas, y no zonas rurales más o menos montañosas del Mágreb medio (actual Argelia) o del Mágreb extremo (Marruecos)24.
Y con expresa o tácita intención de reforzar las estructuras militares de los poderes políticos de la zona, tanto para su política interior como exterior.
Andalusíes en los ejércitos marroquíes
Dos hechos muy conocidos de la política militar marroquí a lo largo del siglo XVI y principios del XVII muestran la importancia de la estructura militar al servicio de los soberanos musulmanes en el fenómeno de insersión de los musulmanes mudéjares y moriscos inmigrantes de España, en el vecino Mágreb.
El primero es la participación de un cuerpo de ejército, compuesto por soldados moriscos y dirigidos por su jefe el almeriense Pachá Jáudar, en la expedición marroquí que envió el soberano Áhmad Al-Mansur Adh-Dháhabi a conquistar Tumbuctú y el cauce septentrional del río Níger. Esta expedición ha sido interpretada no sólo como una operación comercial marroquí para controlar el comercio de la sal, del oro y de otros productos subsaharianos, sino también para alejar de la corte marroquí a cuerpos de ejército poderosos, de origen extranjero y sospechosos de intervenir en las luchas políticas marroquíes. La ventaja de su fidelidad al soberano, por su origen extranjero, para dominar a la población marroquí y sus grupos, podía convertirse en inconveniente si pretendían intervenir en la propia política de los dirigentes marroquíes, inclinándose a favor de uno u otro bando de la corte25.
Precisamente unas décadas más tarde, justo antes de la gran expulsión de los moriscos de España de 1609-1614, la acción o defección del cuerpo de ejército de los andalusíes provocó el resultado negativo de la batalla llamada «de los Tres Reyes», que hundió al imperio marroquí en el caos y la anarquía, durante más de treinta años.
Inmigrantes andalusíes en el nacimiento y poderío de Argel
Argelia -el estado, provincia o regencia de Argel, como fue llamada- sintetiza, de otra forma, esos mismos elementos de estructura de acogida de los inmigrantes musulmanes de España, que se han detectado en la sociedad de Marruecos, antes de la gran expulsión final del siglo XVII.
Argel -«Los Islotes», en lengua árabe, o «El Peñón de Argel», como se le llamaba en castellano- era una población insignificante, al pie de unas colinas junto al mar, y se transformó en magnífico puerto militar protegido por los islotes que tenía delante, en la primera década del siglo XVI. Los hermanos Barbarroja, artífices de esta transformación, eran extranjeros a la región y entregaron en 1517 el fruto de su trabajo -la ciudad y los territorios que habían conquistado, hasta las fronteras marroquíes- a otros extranjeros, los turcos del Imperio Otomano, que desde su capital Estanbul dominaban ya Anatolia, el Oriente árabe y gran parte de los Balkanes. Era la mejor forma de atraer a los otomanos hacia el Mediterráneo occidental, para que defendieran el Mágreb islámico de las ocupaciones hispánicas ya mencionadas. Así nació el espacio político argelino moderno, a principios del siglo XVI, como ciudad-estado marítimo y con un hinterland montañoso controlado por vías de comunicación de antiplanicies y de salidas al mar por unos pocos puertos (Bona, Chichel, Bujía, Cherchel, Tenés, Mostaganem, Honéin, etc.).
La creación de Argel corresponde, por tanto, al período de la conversión forzada de los musulmanes mudéjares hispanos en moriscos ya bastante perseguidos, religiosamente y en sus hábitos y costumbres -especialmente los granadinos-. La creación de esa gran ciudad cosmopolita, que atraía a toda clase de mediterráneos con esperanza de futuro -beréberes del interior, europeos convertidos al Islam, orientales de diverso origen y musulmanes hispanos- ofrecía a la emigración morisca unas estructuras sociales muy apropiadas para acogerlos.
No pueden describirse aquí todos los elementos de esas estructuras sociales. Pero están muy bien documentados unos cuerpos de ejército andalusíes -ya en la tercera década del XVI-, y moriscos de las costas valencianas instalados en el puerto de Cherchel vecino de Argel y haciendo naves para las autoridades otomanas, así como toda clase de artesanos que contribuyen a la prosperidad de la capital (en la contrucción, en las nuevas conducciones de agua, en el comercio y en todo lo relativo a las artes de navegación). También puede presuponerse el inicio de la agricultura alimentaria y de la arboricultura de los andalusíes, muy bien documentadas con los poblados moriscos posteriores a la gran expulsión, en el Valle de la Mitidja que rodea a las colinas costeras de Argel26.
El paralelismo con Marruecos es evidente: ciudad nueva como Tetuán, cuerpos de ejército terrestre y marítimo al servicio de las autoridades políticas musulmanas -aquí, nuevas; en Marruecos, más tradicionales- y, globalmente, unas estructuras urbanas cosmopolitas muy flexibles, donde los musulmanes hispanos no desentonaban y donde podían insertarse con cierta facilidad los emigrantes musulmanes españoles, tanto moriscos como «cristianos viejos» recién convertidos al islam, en búsqueda de nueva vida en ese «ultramar» tan cercano.
2. ESTRUCTURAS DE ACOGIDA, CUANDO LA GRAN INMIGRACIÓN FINAL
2.1. Rechazo inicial de la sociedad magrebí hacia los moriscos
La gran expulsión fue decidida y organizada con tanta rapidez como secreto. No se negoció el punto de destino con los países de acogida. Lo principal era su destierro o eliminación de los territorios españoles.
De ahí que la primera etapa de las expulsiones (1609) fue una chapuza oficial que degeneró en una catástrofe para los emigrantes expulsados, los valencianos. Tenían que dirigirse a los puertos magrebíes de Orán-Mazalquivir, ocupados por España desde 1505, y desde esas ciudades amuralladas ser expulsados hacia los territorios circunvecinos, ocupados por tribus seminómadas sedentarizadas y políticamente dependientes del acuartelamiento turco de Mostaganem (a unos 50 kilómetros, al este), de la ciudad de Tremecén (Tilimsán) (a unos 150, al sur) y de la capital de la provincia, vilayet o regencia de Argel (a más de 500 kms., al este).
Apenas desembarcados, eran echados a territorio argelino, ya que ni la estrecha península del fuerte de Mazalquivir, ni la fortaleza de Orán podían estratégicamente albergar esas multitudes, ni tampoco alimentarlas. Entonces, las poblaciones rurales, que veían invadidas sus tierras por esos extranjeros con los que no tenían ni pacto, ni afinidad lingüística, ni cultural y ni siquiera vestimentaria, empezaron a defenderse y saquearles despiadadamente. No se había previsto, ni por parte española, ni por parte magrebí, la más elemental estructura de acogida de los emigrantes forzosos españoles.
Alertadas las autoridades musulmanas, tanto las de Argel como las del vecino reino de Marruecos (a unos 200 kms. de Orán, hacia el oeste), enviaron tropas para defender a los moriscos, castigar a los saqueadores y encaminar a los que habían logrado salvarse hacia las ciudades argelinas y marroquíes, respectivamente.
La estructura fundamental de acogida seguía siendo, como en el pasado, las ciudades tradicionales de Marruecos y las cosmopolitas de Argelia y el resto del Imperio Otomano, con sus capacidades comerciales y artesanales, sus alrededores agropecuarios y sus estructuras militares, todas ellas necesitadas y favorecedoras de mano de obra, especialmente la mano de obra especializada de muchos moriscos de la rica sociedad española.
Pero la mala acogida inicial, que tardó meses en corregirse (y fue jaleada en España, por cristianos partidarios de la expulsión, como un castigo divino a los musulmanes aferrados a su fe islámica), provocó fuertes reacciones en España, donde el proceso de expulsión seguía realizándose con un ritmo acelerado, cuyas características eran mortales para los moriscos: eran transportados a los puertos por militares o por sus señores feudales, que les esquilmaban; se embarcaban para Orán-Mazalquivir en naves militares, donde algunos (y algunas) eran reducidos a escavitud por los oficiales, o en naves civiles auxiliares, venidas de todo el Mediterráneo europeo atraídas por el negocio, jugoso si los moriscos más pudientes les pagaban para ser llevados a Argel u otras ciudades musulmanas (y luego eran desembarcados en la playa magrebí más cercana, como está documentado, o echados al mar, después de despojarles).
Esta circunstancia provocó rebeliones en las montañas valencianas, de moriscos que no querían emigrar en esas condiciones de peligrosidad, rebeliones que fueron aplastadas militarmente.
Pero, por otra parte, personalidades cristianas, eclesiásticas y laicas, se interesaban por la salvación del alma de los niños moriscos, abocados irremediablemente a ser musulmanes si emigraban a territorios islámicos. Pretendían, por tanto, que se les arrancara a sus padres expulsados y se confiara su educación a piadosos cristianos de cuya domesticidad formarían parte. Ante la resistencia natural de los padres y madres musulmanes, hubo de idearse una fórmula intermedia: expulsar a los moriscos a territorios cristianos europeos, donde podrían educar a sus hijos en la fe cristiana con tal de que no se los quitaran (fuentes españolas narran los gritos desgarradores de las madres, al embarcarse sin sus hijos en el puerto de Sevilla, por ejemplo).
2.2. Expulsión por Europa: inserción y paso
Las razones, someramente expuestas, que hacían inviables las emigraciones por Orán y otras plazas españolas en la costa magrebí o el embarque directo hacia países musulmanes, obligaron al gobierno español a idear nuevos itinerarios para la expulsión. Éstos fueron por la vecina Francia o por algunos estados italianos. En Francia reinaba aún Enrique IV, el de Navarra, que había tenido tratos con los moriscos en su política anti-española, y en Italia el soberano de Toscana planificaba enriquecerse con las inversiones económicas de algunos ricos moriscos y con una mano de obra barata para desecar y transformar en ricos territorios agrícolas diversas zonas pantanosas del país.
El camino de Francia para ir a territorios musulmanes está documentado por algunos itinerarios de viaje de los moriscos, a lo largo del XVI, que han llegado hasta nosotros. Algunos moriscos hasta se habían instalado en puertos franceses y ayudaron a los moriscos expulsados a embarcarse hacia otras tierras, como lo habían hecho con casos más individuales, antes de la expulsión.
Porque la inserción de los moriscos en la sociedad francesa resultó muy difícil y sólo se logró en muy contados casos y con precariedad. Pronto se vio que Francia, al igual que Venecia y Toscana, resultaron ser un mero tránsito para miles de moriscos, que luego se embarcaban hacia Marruecos o hacia los territorios magrebíes, balcánicos o anatólicos del Imperio otomano.
2.3. Marruecos: la capital Marrakech y las ciudades costeras de Tetuán y Salé-Rabat
La capacidad de acogida del territorio y de la sociedad marroquíes fue muy importante, pero se canalizó por las estructuras urbanas tradicionales del sultanato, sumido políticamente en una importante guerra civil.
La capital Marrakech, al sur, al pie del Atlas y no lejos del desierto sahariano, había recibido durante siglos a inmigrantes de Al-Andalus. Con la dinastía saadí había integrado a lo largo del siglo XVI numerosos moriscos, como los cuerpos de ejército ya mencionados o al conocido escritor bilingüe y diplomático granadino Áhmad Al-Háchari Bejarano29. Los inmigrantes solían desembarcar en los puertos portugueses de la costa atlántica, que mantenían relaciones con la capital. No se sabe bien si utilizaron ese itinerario parte de los miles de inmigrantes moriscos de la gran expulsión, dada la situación política caótica de la capital, en aquellos años.
En cambio está muy bien documentada la llamada «república morisca de Salé-Rabat», que ocupó durante varias décadas esa zona estratégica costera de la desembocadura del río Bu-Regrag, dirigida políticamente por un grupo de moriscos, emprendedores comerciantes, originarios de la población extremeña de Hornachos, ya especializada en España en el trajineo comercial. El comercio de los saletinos se realizaba sobre todo por mar, con una compleja diplomacia, que intentaba contrarrestar la continua presión de los jefes locales de la región y la de los soberanos marroquíes, que acabaron sometiendo a la ciudad, superadas las guerras civiles.
Al norte, la ciudad de Tetuán y sus alrededores prosiguieron con su acción de acogida de musulmanes peninsulares, que había iniciado AlMándari, un siglo antes.
Entre Tetuán y Salé, un jefe militar de origen andalusí, Gailán, mantuvo durante décadas una lucha continua contra los portugueses y los españoles que ocupaban diversos puntos costeros. Contaba con tropas moriscas y tenía que defenderse también de la población local y de los moriscos de Tetuán y de Salé, a los que procuraba esquilmar para la subsistencia de sus seguidores.
Esta situación volvió a la administración más o menos directa del sultanato de Marrakech al asumir efectivamente el poder la nueva dinastía de chorfas, a mediados del siglo. Pero la situación de autonomía periférica, con gran peso de andalusíes en toda la costa noroccidental del reino, ayudó a muchos moriscos a integrarse en la sociedad del sultanato magrebí, donde se asimilaron totalmente, aunque guardaran algunas características hispánicas, que a veces se han conservado hasta nuestros días, debido también a los continuos flujos de la vecindad geográfica con España.
2.4. El Imperio Otomano: Argel, Túnez, Trípoli, Egipto y el Máshrek, Estambul, Balkanes y Anatolia
El Imperio Otomano, nacido en la península de Anatolia, resurgió con tanta fuerza de la gran crisis general de Oriente Medio producida por los mongoles de Tamerlán, a principios del siglo XV, que no sólo conquistó la mítica Bizancio / Constantinopla / Estambul (1453), sino que a principios del siglo XVI se había hecho con la soberanía de casi todo el mundo árabe (menos Marruecos), desde Argelia hasta la Península de Arabia y el Irak. A lo largo de todo el siglo XVI, apoyó decisivamente a los moriscos musulmanes de España, especialmente desde su provincia (vilayet) de Argelia, aunque su eficacia no correspondiera a las esperanzas de triunfo sobre los españoles, que habían puesto en ellos los moriscos. 30
No se puede uno extender, en la brevedad de este artículo, en las estructuras de acogida del Imperio Otomano con respecto a los moriscos, ni a los numerosos estudios monográficos realizados sobre la insersión de los moriscos en Argelia y sobre todo en Tunisia33, Libia34, Egipto35 y Anatolia36. Pero sí pueden señalarse dos características generales que caracterizan al gobierno otomano en su política de acogida de los inmigrantes moriscos expulsados de España.
Primero, que hubo una política general del Imperio Otomano sobre esa insersión, desde el Mágreb a Anatolia y los Balkanes, coordinada eficazmente desde la Sublime Puerta de Estambul, como lo ha mostrado Abdelmajid Temimi con docuentación otomana.
Segundo, que esa política estaba basada en su experiencia oriental de gobernar a los diferentes grupos étnicos o religiosos dejándoles que tuvieran sus propios jefes -supeditados a las autoridades otomanas de cada provincia.
Así tuvieron los andalusíes sus «sheij» en Túnez, al menos en Túnez y Trípoli, y su «emir sanchak» en las implantaciones moriscas en Anatolia, tanto en las costas de Cilicia como en las fronteras con los persas37". Pero esta institución o autonomía administrativa, como «minoría», no prosperó, ni en el Mágreb, ni en Oriente: en el Mágreb, por la falta de tradición de esta forma de grupo político (con excepción de los judíos y cristianos autóctonos, éstos sólo en la Alta Edad Media); en el resto del Imperio Otomano, seguramente por el escaso número de inmigrantes de origen hispano.
Pero sobre todo dominó el deseo de los moriscos de integrarse en las sociedades de acogida, como creyentes musulmanes y como árabe-hablantes, prescindiendo cada vez más de los demás rasgos hispanos, limitados a la conciencia de origen y a algunos rasgos hispanos de esa tradición.
2.5. Resumen de la insersión de los emigrantes moriscos, por un contemporáneo
Un escritor argelino contemporáneo de la gran expulsión, AlMaqqari de Tremecén, al final de su monumental historia de los musulmanes de Al-Andalus, describe la implantación de los moriscos expulsados en unas pocas líneas, de inmenso valor sintético: «Salieron millares para Fez [Marruecos] y otros millares para Tremecén [Argelia], a partir de Orán, y masas de ellos para Túnez [Tunicia]. En sus itinerarios terrestres, se apoderaron de ellos beduinos y gente que no teme a Dios, en tierras de Tremecén y Fez; les quitaron sus riquezas y pocos se vieron libres de estos males; en cambio los que fueron hacia Túnez y sus alrededores, llegaron casi todos sanos.
Ellos construyeron pueblos y poblaciones en sus territorios deshabitados; lo mismo hicieron en Tetuán, Salé y La Mitidja de Argel.
Entonces el sultán de Marruecos tomó a algunos de ellos como soldados armados. Se asentaron también en Salé. Otros se dedicaron al noble oficio de la guerra en el mar, siendo muy famosos ahora en defensa del Islam. Fortificaron el castillo de Salé y allí construyeron palacios, baños y casas, y allí están ahora.
Un grupo llegó a Estambul, a Egipto y a la Gran Siria, así como a otras regiones musulmanas. Actualmente así están los andalusíes40
2.6. Los últimos emigrantes moriscos al Mágreb (siglo XVIII)
Parecía que con la gran «limpieza étnica» de la expulsión de los moriscos de España, en 1609-1614, se había terminado el dilatado período de estancia de musulmanes de la Península Ibérica y en la Península Ibérica: nueve siglos (711-1614). Algunos historiadores (L. Cardaillac, M. García-Arenal, B. Vincent) han encontrado algunos documentos, principalmente inquísitoriales, en el que aparecen algunos moriscos en las décadas que siguieron a la gran expulsión, especialmente de moriscos exiliados que vuelven a España o son capturados en la mar y juzgados como apóstatas -curiosa lógica de la actitud inquisitorial, con bautizados forzosos que habían sido expulsados precisamente por no ser cristianos, sino musulmanes inconvertibles-, últimos emigrantes de ida y vuelta, en un azaroso Mediterráneo41.
A partir de esa época (hacia 1640, según Cardaillac42), ya sólo habría en España musulmanes esclavos, «prisioneros de guerra», hasta la supresión generalizada de la esclavitud en el siglo XIX43, viajeros (comerciantes y diplomáticos) y musulmanes españoles o establecidos en España modernamente, amparados por la libertad religiosa reconocida por los artículos 16 y 27 de la Constitución Española de 1978, por La Ley Orgánica de Libertad Religiosa (B.O.E. 20-07-1980) y específicamente por la Real Orden de 10 de noviembre de 1992, que reconoce el Acuerdo de Cooperación del Estado con la Comisión islámica de España (B.O.E. 12-11-1992), recientemente ampliado por lo que se refiere a los programas de religión musulmana de la enseñanza pública no universitaria (B.O.E. 18-01-1996)44. Esta misma legislación, al preservar la privacidad de la fe religiosa en el ordenamiento jurídico y administrativo español, no permite saber el número de musulmanes españoles y sólo aproximadamente el de los extranjeros, si son originarios de países de población mayoritariamente musulmana45
Pero un curioso episodio en el primer tercio del siglo XVIII (entre 1727 y 1732) va a renovar la situación de unos cripto-musulmanes, que se habían mantenido en secreto en la sociedad española granadina46. Descubiertos, por denuncias mutuas ante la Inquisición, se ven juzgados con bastante lenidad por unos tribunales inquisitoriales que hasta redactan un compendio de sus creencias islámicas, muy estructuradas con creencias cristianas compatibles con el Islam, para poder juzgarlos47. Integrados en su mayoría en la sociedad cristiana, con penas bastante leves, algunos de sus jefes fueron expulsados de Granada y se fugaron hacia la sociedad musulmana del Imperio Otomano (primero a Esmirna, importante puerto al oeste de Anatolia, y finalmente a Túnez, donde aún hoy en día sus descendientes forman parte de una gran familia burguesa de la capital, que hasta dio un primer ministro del Bey, en los años cuarenta)48.
El texto del diario del director del hospital español de Túnez, Francisco Ximénez, en el que se nos informa de la llegada de esos granadinos es muy significativo de su insersión en la sociedad musulmana. A fecha de 27 de julio de 1731, dice: «Ha escrito desde Esmirna a Cherife Castelli un cierto Moza La Joa que dice ser descendiente de los Albencerrajes, natural de Granada, alcaide de la torre del Aceitunero y puerta de Taxalanza, el cual fue por la Inquisición de Granada castigado por morisco a cuatro años de destierro y se ha pasado con sus hermanos y hermanas a Esmirna. De allí /p,214/ pretende venir a vivir a esta ciudad. Habrá cuatro años que fue castigado»49.
El nombre árabe del jefe de este grupo de inmigrantes permite hacer el lazo entre los granadinos y sus actuales descendientes tunecinos: Muza [Musa, Moisés] La Joa [«al-ijwa», actualmente escrito en francés Lakhoua, que significa «los hermanos», precisamente «sus hermanos y hermanas» del texto español, que les quedó como apellido]. Pero el texto de Francisco Ximénez añade más: informa que los granadinos refugiados en el Imperio Otomano se dirigen a Cherife Castelli, gran personalidad andalusí descendiente de los moriscos inmigrantes del XVII, riquísimo comerciante y hermano del Jaznadar o ministro de finanzas del Bey o gobernador de la provincia o regencia muy autónoma de Túnez; de ambos habla extensamente Ximénez en su diario.
Por tanto, aquí también, los emigrantes musulmanes de la Península se insertan en el Mágreb árabe gracias a la fraternidad de los andalusíes que les precedieron. Éstos lo hacen además con una solidaridad de clase, entre burgueses adinerados. Los granadinos expulsados eran emigrantes que pudieron salir con fuertes sumas de dinero, no sabemos cómo o por qué. Pero traían dinero, que invirtieron en una importante artesanía pre-industrial, la fabricación del «bonete tunecino» o «chechía», que era casi monopolio estatal llevado por los andalusíes del país, donde los Lakhoua llegaron a ser dirigentes, en el siglo XIV". El dinero fue un poderoso factor positivo de insersión para estos granadinos, como lo había sido ya antes, para los moriscos o los andalusíes en genera 51.
La conclusión de este episodio tardío de las emigraciones de musulmanes moriscos españoles permite una conclusión final: aunque las estructuras de acogida fueran generales y variadas, la actuación individual y la suerte diversa condicionaron también los resultados de la insersión, con más peso a veces que las estructuras de acogida de la sociedad receptora. Parece que es ley general de todas las emigraciones.
APÉNDICE :
REFLEXIONES SOBRE LA INSERSIÓN SOCIAL DE LOS ESPAÑOLES EN EL MÁGREB A PARTIR DE LA BAJA EDAD MEDIA
Este texto se presentó en Barcelona en 1975 y se publicó en las actas del // Congreso Internacional de Estudios sobre las Culturas del Mediterráneo Occidental, Barcelona, 1978, 161-165. Por la naturaleza y circunstancias de ese encuentro, en las tensiones internacionales y locales provocadas por la inminente muerte de Franco y sus sangrientos antecedentes, puede considerarse este texto como prácticamente inédito. Agradezco la ocasión que me permite publicarlo, con su vigencia y carácter autobiográfico, por mi experiencia de emigrante laboral español en el Mágreb, entre 1971 y 1974, en las universidades de Túnez, Argel y Orán.
En este Congreso consagrado a las emigraciones mediterráneas no es inútil estudiar las estructuras de acogida que tienen las sociedades50 a
donde van a parar los emigrantes. Esta comunicación, limitada al Mágreb islámico desde la baja Edad Media, pretende ser una reflexión que llega hasta la época moderna, a partir de datos conocidos y sin tener que exponer una bibliografía muy extensa y también muy conocida.
La sociedad musulmana en general tiene unas estructuras de integración generales, según las categorías de personas, desde el creyente musulmán, teóricamente en plenitud igualitaria de derechos, hasta el infiel politeísta o idólatra o el renegado, carentes absolutamente de derechos. Además, existen en la socidad musulmana otras categorías públicas, reconocidas más o menos por la sociedad y hasta a veces por la religión y el derecho: califa, experto en religión, ricos y pobres, hombres y mujeres, profesiones diversas, niños y ancianos, etc. A cada categoría de personas corresponde una forma de inserción social o de asimilación, que repercuten en la integración de los emigrantes.
Aquí vamos a estudiar: 1° la situación general de las inserciones de españoles o extranjeros en el Mágreb islámico, y 2° preguntarnos en particular por la acogida de una categoría especial de extranjeros, que siempre ha sido difícil de situar socialmente por parte de los historiadores: los convertidos al Islam o «renegados», extranjeros que quieren vivir en el Mágreb con plenitud de derechos (profesionales, cívicos, familiares...).
I. Esquemática descripción de los grupos de emigrantes en la Edad Media
Hay que empezar tomando como base de acogida la situación de la sociedad magrebí, es decir, la sociedad de los musulmanes árabes, ya que el elemento beréber no tiene, en general, más estructuras de inserción del extranjero que las que le proporciona una sociedad de estado según el modelo árabe-islámico. Se conoce algún caso de pacto entre españoles y tribus beréberes, pero ninguno de asimilación de europeos a la sociedad beréber, por lo menos en la Edad Media, a no ser que haya tomado el poder de un estado árabe-islámico.
El problema socio-lingüístico beréber surge también con un elemento étnico de origen hispánico, emigrado al Mágreb, el de los moriscos o andalusíes, de los siglos XVI-XVII. Sus costumbres diferentes y su desconocimiento casi general de la lengua árabe hicieron que formaran un grupo aparte que tardó un poco en asimilarse. Pero cuando aprendieron la lengua pasaron a formar un sub-grupo de la sociedad árabe-islámica del Mágreb, en la que sólo se distinguían por su origen, Al-Andalus, es decir, un territorio del mismo mundo árabe e islámico para la conciencia magrebí. Aquí el factor religioso común contribuyó decisivamente a su rápida y completa integración en el Mágreb.
Otros súbditos magrebíes que se integran de forma especial en la sociedad árab-islámica del Mágreb son los judíos. Aquí el factor de diferenciación no es sobre todo el lingüístico, sino precisamente el religioso. Como todos los «protegidos» (cristianos y judíos), pagan con cierta discriminación social el precio de la conservación especial de su fe y de sus tradiciones pre-islámicas, al interior de la sociedad árabe-musulmana. Están integrados en ella, pero de forma diferente a la de los musulmanes. Los judíos de origen español se fueron integrando al grupo de los judíos magrebíes, súbditos de los Estados musulmanes. Pero más adelante vinieron como súbditos italianos y hasta españoles, con estatuto de extranjero no asimilados.
Como extranjeros asimilados pueden considerarse los que abrazan la religión musulmana, llamados convertidos o renegados, según como se mire. El factor religioso ya no consituye un elemento que impida su integración en la sociedad musulmana y hasta el ejercer funciones técnicas y políticas importantes en ella. Con todo, quedan siempre -ellos y a veces sus sucesores- en el grupo de los «conversos» («ilch») de fe movediza. El estatuto pleno de musulmán les viene reconocido en principio, con precedentes gloriosos en tiempos del Profeta Mahoma. Hay muchos españoles en este caso en el Mágreb, ya desde la Edad Media.
Dentro de la categoría de los extranjeros asimilados están las mujeres no musulmanas esposas de musulman. Si se convierten al Islam, entran en la situación general de los convertidos. Pero la religión musulmana prevé que puedan conservar su fe, aunque no la puedan trasmitir a sus descendientes que, hijos de musulmán, seguirán la religión de su padre. En los casos que conocemos de españolas casadas con musulmanes en el Mágreb, pocas eran las que conservaron su religión, hasta tiempos muy recientes.
El caso de extranjero no musulmán que se casa con una musulmana está expresamente prohibido en el Islam. Por eso no puede ser un camino de integración, sino de rechazo por parte de la sociedad islámica.
Hay otros extranjeros que no se asimilan en la sociedad islámica, pero que conviven con ella. Son los extranjeros establecidos al amparo de tratados o capitulaciones, o como viajeros protegidos por las autoridades musulmanas y las representaciones «diplomáticas» aceptadas por ellas. Esta forma de presencia hispánica en el Mágreb tuvo pecisamente su época cumbre en la baja Edad Media. Comprendía a militares al servicio de los soberanos y algunos otros «técnicos», que a veces abrazaban el Islam para poder ejercer mejor su oficio y gozar de más influencia y derechos cívicos; comerciantes, más o menos estables; eclesiásticos, al servicio de la comunidad cristiana o encargados de hospitales y rescates de esclavos; los propios «diplomáticos» que eran también comerciantes y representaban al país y defendían a sus súbditos y sus intereses.
Finalmente hay unos extranjeros no asimilables por la sociedad islámica magrebí: los infieles politeístas o idólatras, en general; los musulmanes que reniegan de su religión; y los enemigos del Islam que hacen la guerra a los países musulmanes. Las dos primeras categorías apenas afectan a los españoles aunque se aplique a menudo a los cristianos el título de politeísta trinitario y que haya algún caso de magrebí musulmán bautizado en los territorios hispánicos. En cambio, todos los españoles vienen englobados en la categoría de enemigos del Islam que hay que combatir, sobre todo si ocupan territorios islámicos (Al-Andalus, Granada, plazas magrebíes). De ahí la constante y profunda inasimilación de las plazas o territorios ocupados por España en el Mágreb, aislados u hostigados por los musulmanes.
Una consecuencia de esta situación bélica lo constituye la situación del esclavo, botín de guerra del Mágreb, integrado a su manera en la sociedad magrebí. Tiene un estatuto intermediario entre el del politeísta enemigo del Islam (que habría que matar) y el del súbdito «protegido» (por ser cristiano), con algunos de los derechos de los extranjeros instalados (diplomáticos, comerciantes, eclesiásticos...) con los que mantiene múltiples relaciones.
Éstas son, esquemáticamente, las diversas categorías o formas de integración de los emigrantes extranjeros, particularmente españoles, en el Mágreb islámico. Al interior de cada grupo encontraríamos, evidentemente, nuevos subgrupos, según los lugares y las épocas.
2. Pervivencias actuales de esas formas de integración en el Mágreb
Estas formas de integración tradicionales del Mágreb islámico han sido profundamente modificadas en nuestros días, después del paréntesis colonial, bajo el impacto de la modernidad y de las nuevas relaciones internacionales. Pero presentan algunos caracteres de continuidad que merece le pena señalar. Vamos a ver, pues, qué queda de esas estructuras de acogida de emigrados hispánicos.
No hay emigraciones de musulmanes españoles. Los descendientes de los moriscos o andalusíes están perfectamente integrados en Mágreb árabe-islámico, aunque recuerden a menudo su origen hispánico.
La mayor parte de los judíos protegidos por España, o bien se han acogido a la nacionalidad francesa (por ejemplo, en Túnez) o han emigrado a España o a sus territorios (por ejemplo, en Marruecos). De todas formas, su situación en el Mágreb no es ya tan discriminatoria como en la Edad Media y gozan en teoría de la igualdad de derechos cívicos con sus conciudadanos musulmanes, a pesar de las inevitables incidencias del conflicto palestino-israelí y el peso de la tradición popular discriminatoria.
Las mujeres no musulmanas esposas de musulmanes son más numerosas en la actualidad en conservar su religión. Guardan en general también la nacionalidad española, con lo que gozan de la mayor parte de los derechos de los extranjeros establecidos en el país.
El caso de un no-musulmán casado con una musulmana sigue siendo muy difícilmente asimilable en el Mágreb. Si se convierte al Islam, sigue un proceso de integración familiar y social que le va insertando cada vez más en el Mágreb islámico. Si no, el fenómeno de rechazo le obliga a volver a su país, con o sin su mujer.
El caso de los extranjeros establecidos, más o menos provisionalmente, en el Mágreb se ha extendido mucho y goza de múltiples garantías internancionales, concordes con la evolución de los tiempos, pero en la misma línea de convivencia no-asimilable en la Edad Media. Esta situación tiende a asemejarse a la instalación de todos los emigrantes de un país a otro, en el mundo. Son técnicos diversos -en quienes la conversión al Islam es rarísima-; eclesiásticos al servicio de las comunidades cristianas, en obras de beneficencia -sobre todo son religiosas femeninas- y en la enseñanza, que les convierte en realidad en técnicos; en empresa privadas o públicas españolas, que forman a veces equipos de de trabajo técnico, cuando se trata no sólo de vender productos, sino de vender fábricas u obras públicas, generalmente en cooperación hispano-magrebí; diplomáticos o servicios asimilados; etc.
Hay que notar que servicios medievales, como los apoyos militares, se hacen ahora a nivel más indirecto, en el marco diplomático o de organismos internacionales especializados y no enviando tropas. También el número de viajeros-turistas ha aumentado con las facilidades de desplazamiento.
Finalmente, los esclavos botín de guerra han desaparecido. La situación internacional de paz ha seguido a las guerras de ocupación colonial y de independencia. Los colonos, fruto de la situación política anterior, se han visto obligados a emigrar poco a poco, gracias a múltiples limitaciones que han ido imponiendo las leyes magrebíes, que excluyen prácticamente a los extranjeros de la propiedad inmobiliaria, sobre todo rural.
Después de este breve panorama que aclara los conceptos con el análisis de las situaciones, se puede uno preguntar mejor por la diferente inserción, en la Edad Media y en nuestros días, del extranjero que quiere gozar de plenitud de derechos en el Mágreb, especialmente si quiere trabajar allí como técnico con su competencia profesional. Es tema complejo, íntimamente ligado por una parte a la situación de falta de técnicos magrebíes que obliga a los diversos países magrebíes a instaurar una «cooperación técnica» con europeos después de la Independencia, y por otra parte, a la ya sensible situación de paro laboral que afecta ya a algunos sectores profesionales, empezando por la enseñanza.
Pero se puede resumir diciendo que el técnico extranjero en la Edad Media, para ejercer plenamente su trabajo y gozar de todos los derechos cívicos en el país, tenía que integrarse en la sociedad magrebí por la conversión al Islam. Esta condición no es necesaria actualmente, salvo para casarse con una musulmana. Eso indicaría que la estructura islámica tradicional se ha conservado más en el estatuto familiar que en la vida pública y profesional. Pero hay que reconocer que, respetando una serie de libertades que el extranjero tiene al igual que los magrebíes, el estatuto de extranjero que tiene el técnico se hace inasimilable en la sociedad magrebí y hace muy inestable su presencia en el Mágreb. Hasta su conversión al Islam, fuente de una casi total igualdad de derecho y de una integración social plena en la Edad Media, no le asegura actualmente una inserción permanente en el Mágreb con la concesión de la nacionalidad -naturalización-.
Se puede, pues, concluir diciendo que "las emigraciones españolas en el Mágreb tienden a ser de una sola clase: la de los extranjeros en situación temporal, con plenitud de derechos, pero con inserción limitada".
Míkel de Epalza fue Catedrático de Estudios Árabes e Islámicos. Universidad de Alicante.
NOTAS:
1 Véase mi pequeño estudio sobre el paso de la noción árabe-islámica de «rizq» («ayuda divina» en los viajes) a la moderna de «riesgo» («peligro») a través del italiano medieval y de los seguros contra los riesgos marítimos en el Mediterráneo, en M. de Epalza, «Notas sobre la etimología árabe-islámica de «riesgo»», Sharq Al-Ándalus. Estudios Árabes, Alicante, 6, 1989, 185-192.
2 «Árabes» por la lengua, «musulmanes» por la religión, los «andalusíes» de Al-Ándalus [Península Ibérica musulmana] y los «magrebíes» del Mágreb o Magreb [Noroeste de África] tenían grupos específicos: lingüísticamente, los «hispanos» que hablaban una lengua derivada del latín, llamada actualmente «lengua mozárabe», y los «beréberes» o amazigh que hablaban -y hablan aún hoy en día- diversas formas del «beréber» o «bereber»; religiosamente, también coexistieron durante muchos siglos con los «musulmanes sunníes», generalmente dominantes y cada vez más mayoritarios, comunidades reconocidas de «judíos» y de «cristianos» [llamados actualmente «mozárabes»], con otros grupos musulmanes (fatimíes y otros movimientos chiíes, jarichíes, bargawata, etc.). Ver para estas nociones, y para la realidad actual del Islam, M. de Epalza (dir.), L'Islam d'avui, de dema i de sempre, Barcelona, 1994.
3 Natural de Tánger (1304-1377), sus relatos de viaje fueron recogidos por el andalusí IbnChuzái de Granada y han sido traducidos al castellano: S. Fanjul; F. Arbós, Ibn Battúta. A través del Islam, Madrid, 1981. El más importante barco de las navieras libias lleva el nombre de Ibn Batuta, símbolo emblemático de los viajes árabes.
4 El mejor representante de este género es seguramente el escritor andalusí, de la región valenciana, Ibn-Chubair (1145-1217), cuya obra ha sido también traducida al castellano: F. Maíllo, Ibn Yubayr. A través del Oriente. El siglo XII ante los ojos. Rada, Barcelona, 1988.
5 Hay que recordar el vocabulario histórico general para designar a los musulmanes peninsulares: «andalusíes» u originarios de Al-Ándalus, Hispania islamizada o la Península Ibérica bajo el poder político musulmán; «mudéjares», cuando viven en los reinos cristianos hispanos (Aragón, Castilla, Navarra, Portugal), en comunidades o «aljamas» reconocidas oficialmente como musulmanas; «moriscos», cuando esos mudéjares son obligados a convertirse al cristianismo, aunque la mayoría de ellos se mantuvieran fieles a su identidad islámica, secretamente, como cripto-musulmanes. Otros nombres medievales -como «agarenos», «ismaelitas», «sarracenos»-, que designan a los musulmanes en general, no son de uso actual. Tampoco «moro», por su sentido despectivo.
Geográficamente, el Mágreb o Magreb designa todo el occidente musulmán o Norte de África occidental: la UMA (Unión del Mágreb Árabe) reúne a los estados de Libia, Tunisia, Argelia, Marruecos y Mauritania. Todos sus habitantes pueden llamarse, por tanto, «magrebíes». Pero hay a veces cierta ambigüedad, en nuestros días, porque los marroquíes o «habitantes del Reino de Marruecos» (denominación en todas las lenguas europeas, que viene de su capital tradicional, Marraquesh) se llaman a sí mismos «magrebíes» (del nombre árabe actual de su país, El Mágreb o Reino Magrebí). La prensa va usando cada vez más «magrebí» para designar a los marroquíes (por ejemplo, «el paso de los magrebíes por España», en verano) dejando el término más tradicional de «marroquí» y creando equívocos con los demás magrebíes. Este equívoco es bastante consciente en muchos musulmanes de Ceuta y Melilla, «magrebíes» en castellano y «marroquíes» en árabe».
Sobre los moriscos en general, ver las síntesis clásicas de A. Domínguez Ortiz - B. Vincent, Historia de los moriscos. Vida y tragedia de una minoría, Madrid, 1978, 1985, 1989, y M. de Epalza, Los moriscos antes y después de la expulsión, Madrid, 1992, 1994. Sobre la expulsión, últimas aportaciones científicas en M. de Epalza (dir.), L'expulsió deis moriscos. Conseqüéncies en el món islamic i en el món cristiá, Barcelona, 1994 [43 ponencias y comunicaciones, en castellano, catalán, francés e inglés]. Para estar al día de las publicaciones científicas sobre mudéjares y moriscos, aportación bibliográfica en la revista Sharq Al-Ándalus. Estudios Árabes, de la Universidad de Alicante [desde vol. 1, 1984, actualmente con el Centro de Estudios Mudéjares con el subtítulo Estudios Mudéjares y Moriscos, desde el vol. 12, 1995], y en el boletín Aljamía [en colaboración con la Universidad de Oviedo, desde 1989], por los Dres. L.F. Bernabé Pons, M. de Epalza y F. Franco Sánchez, del área de Estudios Árabes e Islámicos, de la Universidad de Alicante.
Ver unas reflexiones sobre el tema en M. de Epalza, «Reflexiones sobre la insersión social de los españoles en el Mágreb a partir de la Baja Edad Media», Segundo Congreso Internacional de Estudios sobre las Culturas del Mediterráneo Occidental, Barcelona, 1978, 171-165 [reproducido como apéndice al final de este artículo]. Ver también mi participación en los dos volúmenes de Destierros aragoneses, Zaragoza, 1988, 217-227, ambos muy interesantes para nuestro tema: «Caracterización del exilio musulmán: la voz de mudéjares y moriscos».
8 Ver M. de Epalza, «Costas alicantinas y costas magrebíes: el espacio marítimo musulmán según los textos árabes», Sharq Al-Ándalus. Estudios Árabes, 3, 1986, 25-31; 4, 1987, 4548.
9 Ver ritual de las ceremonias en E M. Pareja, Islamología, Madrid, 1952-1954, tomo II, 538546; A. Machordoms Comín, Las Columnas del Islam, Madrid, 1979, 60-69; y en cualquier tratado sobre los ritos y preceptos islámicos.
10 Ver, por ejemplo, magnífica visión general de A. Hourani, Historia de los pueblos árabes, Barcelona, 1992, o los estudios más especializados reunidos por J.L. Corral Lafuente; M. de Epalza, La Ciudad Islámica, Zaragoza, 1991.
11 Ver magnífica novela que retrata bien el inicio de estos éxodos, del Profesor de Historia Medieval de la Universidad de Zaragoza Dr. José Luis Corral Lafuente, El Salón Dorado, Barcelona, EDHASA, 1996.
12 Ver el caso emblemático del valenciano Ibn-Al-Abbar, que intervino en la rendición de la ciudad de Valencia (1238), de cuyo soberano era ministro, y que pasó a tener varios cargos en la corte de Túnez, donde acabó condenado a muerte. Estudios variados y muy completos en M. de Epalza; J. Huguet (coords.), Ibn Al-Abbar. Polític i escriptor árab valenciá (11991260), Valencia, 1990 [17 estudios, en castellano, en catalán-valenciano y en francés]. Ver también M. de Epalza, «Las influencias de las culturas de Al-Ándalus en el Mágreb», en M.A. Roque (ed.), Las culturas del Magreb, Madrid, 1994, 75-89 (trad. catalana, en Les cultures del Magreb, Barcelona, 1994, 63-73).
13 Ver dos curiosos relatos autobiográficos de viajeros peregrinos, pero también con un magrebí instalado en Aragón y un alfaquí mudéjar que prepara su emigración y acaba instalándose en el reino de Túnez, todos pasando por Mallorca y Tortosa, en M. de Epalza, «Dos textos moriscos bilingües (árabe y castellano) de viajes a Oriente (1395 y 1407-1412)», HespérisTamuda, Rabat, XX-XXI, 1982-1983, 25-112. Para último período de los mudéjares de Valencia, antes de su obligada conversión de 1526, ver E. Salvador, «Sobre la emigración mudéjar a Berbería. El tránsito legal a través del puerto de Valencia durante el primer cuarto del siglo XVI», Estudis, Valencia, 4, 1975, 39-68, y M.D. Meyerson, Els musulmana de Valéncia en l'época de Ferran i Isabel. Entre la coexisténcia i la croada, Valencia, 1994.
14 Ver los clásicos estudios de M.A. Ladero Quesada y J.E. López de Coca, renovados con ocasión de la conmemoración del V Centenario por obras colectivas que han dirigido estos dos catedráticos de Historia Medieval, de las Universidades Complutense y de Málaga, respectivamente.
15 Visiones generales de esa problemática de siglos y de la actualidad, en M.I. Fierro, «La emigración en el Islam: Conceptos antiguos, nuevos problemas», Awráq, Madrid, 12, 1991, 1141; K. Abou al-Fadl, «Islamic law and Muslim minorities: the juristic discourse on Muslim minorities from the second/eight to the eleventh/seventeenth centuries», !Islamic Law and Society, Leiden, 1, 1994, 141-187; A. Carmona, «Los nuevos mudéjares: la shari'a y los musulmanes en sociedades no-islámicas», en M. Abumálham (ed.), Comunidades islámicas en Europa, Madrid, 1995, 49-59.
16 Ver mi conferencia innaugural del I Coloquio «La Voz de Mudéjares y Moriscos», Universidad de Alicante (marzo 1995): M. de Epalza, «La voz oficial de los musulmanes hispanos, mudéjares y moriscos, a sus autoridades cristianas: cuatro documentos, en árabe, en castellano y en catalán-valenciano», Sharq Al-Ándalus..., 12, 1995, en prensa.
17 Ver A.M. Turki, «Consultation juridique d'Al-lmám Al-Mazári sur le cas des musulmans vivant en Sicile sous l'autorité des Normands», Mélanges de l'Université Saint-Joseph, Beirut, L, 1984, 691-704, y «Pour ou contre la légalité du séjour des musulmans en territoire reconquis par les chrétiens: Justification doctrinale et réalité historique», Religiongesprüche im Mittelalter (B. Lewis - F. Niewóhner edits.), Wiesbaden, 1992, 305-323, confirmado -en la práctica- en el estudio de H. Bresc, «Pantelleria entre l'Islam et la Chrétienté», Les Cahiers de Tunisie, Túnez, XIX/75-76, 1971, 105-128. Reciente edición completa de las fatwas de Al-Mazari, por el profesor T. Al-Ma'múri, Fatáwá...al-Mazári, Túnez, 1994.
Ver H. Bouzineb, «Respuestas de jurisconsultos maghrebíes en torno a la inmigración de musulmanes hispánicos», Hespéris-Tamuda, Rabat, 26-27, 1988-1989, 53-66; P.S. Van Koningsveld; G.A. Wiegers, «The Islamic statute of the Mudejars in the light of a new source», Al-Qantara, Madrid, XVII/1, 1996, 19-58.
19 Ver L. Sabbagh, «La religion des Moriscos entre deux fatwas», en L. Cardaillac; B. Vincent; P. Dedieu (editores), Les Morisques et temps, París, 1983, 45-56, y trabajos anteriormente citados sobre este tema.
20 Ver G. Gozálbes Busto, Al-Mandan, El Granadino, .fundador de Tetuán, Granada, 1988, 1996.
21 Ver una excelente y reciente presentación general de la historia de Tetuán, por J.L. Miége; M. Benaboud; N. Erzini, Tétouan. Ville andalouse marocaine, París, 1996, y A. Djbilou, Tánger, puerta de África. Antología de textos literarios hispánicos, 1860-1960, Madrid, 1989. Sobre la Ceuta musulmana y sus restos arqueológicos, hasta nuestros días, excelente y también reciente estudio de C. Gozálbes Cravioto, El urbanismo religioso y cultural de Ceuta en la Edad Media, Ceuta, 1995.
22 Ver resumen de la historia de estas ocupaciones, con el catálogo y principales reproducciones hispánicas conservadas de esas ciudades, en M. de Epalza; J.B. Vilar, Planos y mapas hispánicos de Argelia (siglos XVI-XVIII), Madrid, 1988.
23 Traducción en G. Gozábes Busto, o.c., 26-27.
24 " Ver M. de Epalza, Los moriscos, antes y después..., pp. 137-258.
25 En la abundante bibliografía sobre la expedición, ver M. García-Arenal, «Los andalusíes en el ejército Sa' adi: un intento de golpe de estado contra Ahmad Al-Mansúr Al.Dhanabi (1578)», Al-Qantara, Madrid, V, 1984, I. Diadié Haidara, El bajá Yawdar y la conquista saadí del Songhay (1591 - 1569), Almería, 1993, e interpretación global de la política de esos moriscos o andalusíes en M. Epalza, Los moriscos antes y después..., pp. 294-295.
26 Ver M. de Epalza, Los moriscos antes y después..., pp. 205-259, y N. Saidouni, «Les Morisques dans la province d'Alger «Dar es-Soltan» pendant les XVIe et XVIIe siécles», en M. de Epalza (coord.), L'exili deis moriscos..., 140-146.
27 Ver, para este proceso de expulsión H. Lapeyre, Géographie de l'Expugne morisque, París, 1959 [traducción española, sin índices, Valencia, 1986]; M. de Epalza, Los moriscos antes..., pp. 119-129 y M. de Epalza (coord.), deis moriscos..., así como sus fuentes.
28 La política de los moriscos con Francia y su travesía por el país, cuando la gran expulsión final, han sido estudiadas por L. Cardaillac, G. Turbet-Delof y otros, con escasa pero muy interesante documentación (ver en particular capítulos de L. Cardaillac y de M. de Epalza, en Receuil d'études..., pp. 89-113 y 150-186, respectivamente) 29
29 Ver estudio de C. Samelli, en Receuil d'études..., pp. 348-257; edición completa y estudio de su relato de viaje autobiográfico en árabe, por M. Razuq (Casablanca, 1987); y otros estudios de J. Penella, C. Samelli y G. Wiegers.
30 Ver documentada obra de conjunto, a partir de su tesis doctoral, de G. Gozálvez Busto, «La república andaluza de Rabat en el siglo XVII», Cuadernos de la Biblioteca Española de Tetuán, Tetuán, 9-10, 1974, 7-469, y volumen en árabe de M. Razuq sobre las emigraciones de los moriscos, Casablanca, 1989.
31 Ver M. de Epalza, «Les Ottomans et l'insertion au Maghreb des Andalous expulsés d'Espagne au XVIIe siécle», Revue d'Histoire Maghrébine, Túnez, 31-32- 1983, 165-173; trabajos de A. Temimi y artículos sobre la esperanza morisca en los turcos de L. Cardaillac y M. Sánchez.
32 Ver N. As-Sa'idúni, «La colonia andalusí en Argelia: su importancia demográfica, actividad económica, situación social», Awráq, Madrid, 4, 1981, 111-124, 234 (en árabe, con resumen en castellano), y artículo antes citado.
33 Síntesis en M. de Epalza, Los moriscos antes y después..., 205-259; conjuntos de monografías en M. de Epalza; R. Petit (edits.), o.c. y S.M. Zbiss..., o.c.
34 Ver reciente monografía de E. Lapiedra, «Los moriscos en Libia», L'expulsió deis moriscos..., 369-371.
35 Ver A. A. Abdel-Rahim, «Al-Moriscos Settlement in Egypt through the Religious Court Documents of The Ottoman Age», en L'expulsió deis moriscos..., 158-163.
36 Ver A. Temimi, «Politique Ottomane face á l'implanatation et á l'insertion des Morisques en Anatolie», en L'expulsió deis moriscos..., 164-170.
37 Ver datos en M. de Epalza, «Moriscos y andalusíes en Túnez en el siglo XVII», Al-Andalus, Madrid, 34, 1969, 284-293, con versión en francés M. de Epalza; R. Petit, o.c., 175-181,
38 Ver A. Temimi, o.c. Tengo un pequeño estudio, a partir de los documentos publicados por Temimi, que muestra el doble carácter de las colonias moriscas según la política otomana, evidentes en el caso de Anatolia: son colonias agrícolas alrededor de las ciudades y son colonias en zonas militares de frontera, terrestre o marítima. Tendría que salir publicado en la revista Sharq Al-Ándalus. Estudios Mudéjares y Moriscos, Teruel, 13, 1996.
39 Ver M. de Epalza, «Léxico y onomástica hispánicos de los moriscos, conservados en Tunisia», ponencia del VII Simposio de Estudios Mudéjares (Teruel, 1996), en prensa.
40 Traducción con comentario en M. de Epalza, Los moriscos antes y después..., p. 148.
41 Ver reciente publicación de B. Vincent, «Et quelques voix de plus: de Francisco Núñez Muley á Fatima Ratal», Sharq Al-Ándalus. Estudios Mudéjares y Moriscos, Teruel, 12, 1995, en prensa.
42 Ver L. CARDAILLAC, Moriscos y Cristianos: un enfrentamiento polémico (1492-1640), Madrid, 1979. 43
43 Ver su supresión, al menos en lo referente a los marroquíes y de posesión estatal, con los reales acuerdos entre Carlos III y Sidi Muhámmad Ben-Abdallah, a fines del siglo XVIII, estudiados minuciosamente por R. Lourido y por M. Arribas Paláu, en un proceso político global de pacificación entre España y los países musulmanes, presentado por M. de Epalza, «Intereses árabes e intereses españoles en las paces hispano musulmanas del XVIII», Anales de Historia Contemporánea, Murcia, 1, 1982, 7-17. 44
44 Ver presentación general de la problemática en M. Abumalham (edit.), Comunidades islámicas en Europa, Madrid, 1995. Recientemente, J. MORERAS, «Les Accords de Coopération entre 1' État Espagnol et la Commission Islamique d'Espagne», Revue Européenne des Migrations Internationales, 12/1, 1996, 77-89. 45
45 Sobre los musulmanes españoles, la bibliografía es escasa: ver A. Abumálham (edit.), o.c. [especialmente capítulos de Losada, Tatary y Valencia]; M. de Epalza (dir.), L'Islam d'avui... [especialmente capítulo de Epalza y Moreras]; F. López Barrios; M. J. Haguerty, Murieron para vivir. El resurgimiento del Islam y el Sufismo en España, Barcelona, 1983; y reciente encuesta de T. Roland-Gosselin, Convertis á l'Islam. Aujourd'hui, á Séville , Paris (Fondation pour le progrés de l'homme, vol. 73), 1995 (con prólogo de M. dé Epalza, «Situations de «conversion» socioreligieuse dans les sociétés ibériques (Ve-XXe s.)», pp.5-13, 121-122.
46 Ver presentación general, bien documentada, de Rafael de Lera García, «Cripto-Musulmanes ante la Inquisición granadina en el s. XVIII», Hispania Sacra, Madrid, XXXVI, 1984, 1-55, así como en su tesis doctoral aún inédita. 47
47 Ver este curiosísimo texto, cuya lógica interna no ha sido aún suficientemente estudiada, en M.S. Carrasco Urgoiti; M. de Epalza, «El manuscrito «Errores de los moriscos de Granada» (Un núcleo criptomusulmán del siglo XVIII)», Fontes Rerum Balearum, Palma de Mallorca, III, 1979-1980, 235-247.
48 » Ver M. de EPALZA, «Nuevos documentos sobre descendientes de moriscos en Túnez en el siglo XVIII», Studia historica et philologica in honorem M. Badlori, Roma, 1984, 195-228, especialmente pp. 213-4.
49 Ver nota precedente.
50 P. Teyssier, «Le vocabulaire d'origine espagnole dans l'industrie tunisienne de la chéchia», Mélanges offerts ú Marcel Bataillon par les hispanistes français, Bulletin Hispanique, Bordeaux, LXIV bis, 1962, 732-740, reproducido en M. de Epalza; R. Petit, o.c., 308-316.
51 Ver D. Brahimi, «Quelques jugements sur les Maures Andalous dans les régences turques au XVIIe siécle», Revue d'histoire et de la civilisation du Maghreb, Argel, 9, 1970, 39-51, reproducido en M. de Epalza; R. Petit, o.p., 135-149, y M. de Epalza, «Moriscos y andalusíes en Túnez en el siglo XVII», Al-Andalus, Madrid, XXVIII, 1969, 247-327, traducido en M. de Epalza; R. Petit, o.c., 150-186.
52 Estas reflexiones sobre las estructuras magrebíes para recibir a españoles o hispanos peninsulares en general, a lo largo de siglos de historia, nacieron de mis personales estancias en el Mágreb, entre 1963 y 1974, de estudios históricos generales y experiencia de la realidad social magrebí, de mis estudios y publicaciones sobre los moriscos emigrados a Túnez y del estudio del más ilustre emigrante hispano en el Mágreb el franciscano mallorquín Anselm Turmeda, convertido al Islam a finales del siglo XIV, funcionario de los soberanos tunecinos y escritor en catalán y en árabe (con su nombre árabe de Abdállah At-Tarchumán), puya tumba es un monumento en la capital, con una placa de las municipalidades de Túnez y de Palma de Mallorca. Fue objeto de mi tesis doctoral, defendida en la Universidad de Barcelona en 1967, publicada en Roma en 1971 y reeditada en Madrid en 1994: Fray Anselm Turmeda (`Abdallah al-Taryumán) y su polémica islamo-cristiana.
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