venerdì 30 ottobre 2009

Cosa sta accadendo in Iraq?



Fonte: http://www.articolo21.info/


Perché questo martoriato paese è balzato di nuovo alle prime pagine dei News e dei media? La deflagrazione e il rimbombo delle due esplosioni avvenute la mattina di domenica 25 ottobre segnano una nuova fase di terrore che porterà una lunga scia di dolori e acuirà lo scontro tra le fazioni irachene in lotta per la suddivisione del potere in vista delle elezioni politiche fissate per il 16 gennaio 2010. Gli attentati di domenica scorsa non sono nuovi né sono gli unici accaduti in questi ultimi mesi ma sono, senz'altro, quelli con il più alto numero di vittime e i più pericolosi e preoccupanti perché sono avvenuti in rapida successione l'uno dopo l'altro; e anche perché sono esplosi in una zona che veniva considerata fino a quel momento sicura o, perlomeno meno vulnerabile da altre.

Sono avvenuti davanti alla sede del ministero della giustizia e il palazzo provinciale di Baghdad, due luoghi simboli della legalità. Gli obbiettivi scelti preludono ad un messaggio politico chiaro: coloro che hanno armato e azionato l'ingente quantità di tritolo hanno voluto inviare un chiaro messaggio di sfida al governo, al suo capo Nouri Al Maliki e alle forze politiche dominanti che si azzuffano in questi momenti sugli emendamenti che debbano apportare alla leggi con cui gli iracheni dovranno ritornare alle urne. Non è casuale neanche il momento dei due attentati perchè sono avvenuti nel momento più colmo e più frenetico del movimento della gente in quella zona popolosa di Baghdad e nel giorno in cui il Consiglio Politico e di Sicurezza si riuniva per discutere gli emendamenti da apportare alla legge elettorale. Ed è arrivata, puntuale, la rivendicazione di Al Qaeda annunciando una seria di attentati e terrore che farà centinaia di vittime e metterà in serio imbarazzo e pericolo il governo di Al Maliki che ha fatto della questione della sicurezza e de " Lo Stato di Diritto" la sua bandiera annunciando di scendere in campo per le prossime elezioni con una lista che porta proprio questo nome. La cosa preoccupante è che Al Qaeda e le fazioni religiose che lottano per il dominio del paese hanno dato inizio alla loro "campagna elettorale" a suon di tritolo e molto in anticipo, e prevedendo un lungo periodo di vuoto di potere dopo le prossime elezioni si potrebbero immaginare lunghi mesi di terrore e sangue, esattamente come è accaduto dopo la passate tornata elettorale del 2005 e dopo il fallimento delle forze politiche di indicare subito una coalizione governativa, le varie milizie ( Sunnite e Sciite) hanno approfittato della situazione e hanno esteso il loro dominio su intere province del paese. Alla fine quando le lunghe trattative tra sciiti, Kurdi e sunniti portarono al compromesso Nouri Maliki, il paese era intriso di sangue con un lunghissimo elenco di morti, sfollati ed esiliati ai paesi confinanti.

Sarebbe molto facile addossare la colpa dell'accaduto ai gruppi fondamentalisti (Iracheni e esteri come Al Qaeda) o ai cosiddetti "Rimasugli del vecchio partito Baath", come si sono affrettati a condannare i vari portavoce del governo e come lo stesso Al Maliki ha detto visitando i luoghi colpiti dagli attentati. Ma la questione è molto più profonda e lo spettro verso il quale bisognerebbe indicare il dito accusatorio è molto vasto e, non è assolutamente escluso, che siano nati "Matrimoni di convenienze" dei nemici del passato per imporre una nuova strategia del terrore. E per impedire il varo della nuova legge elettorale che toglie ai gruppi ( Sciiti e Sunniti) dominanti oggi lo strapotere che hanno acquistato con la vecchia legge che dava ai capi delle liste, cosiddette chiuse, di decidere la formazione del parlamento. Gli stessi che hanno impedito al parlamento uscente nelle settimane passate, persino, di iniziare la discussione sulla nuova legge elettorale. Era nella previsione che la situazione di sicurezza precipitasse con l'avvicinarsi della tornata elettorale. E dal momento in cui la politica dominante aveva fallito nell’intento di riportare la sicurezza alla gente, nessuno escludeva l'eventualità del ritorno del terrore.

I due attentati di domenica avvengono dopo pochi giorni dal provvedimento giudiziario nei confronti del deputato sunnita Mohammad Al Daini indicato come mandante e organizzatore dell'attentato dentro il palazzo del parlamento che causò 3 morti, di cui un deputato, e 20 feriti e molti danni materiali, e dopo alcune ore della richiesta della magistratura irachena di rievoca dell'immunità parlamentare della deputata Taysir Mashadani "Partito Islamico" della quale leadership la Mashadin fa parte, ed è il partito che esprime il presidente del parlamento. La Mashadani e suo marito, membro del consiglio provinciale di Diyala sono accusati di avere organizzato e dato l'appoggio a gruppi terroristici nella martoriata provincia di Diyala ( 60 Km a nord Est di Baghdad), e a pochi giorni il nesso tra i mandati giudiziari e gli attentati non è automatico, e pur non essendo del tutto escluso, attentati di tale portata e organizzazione non possono essere messi in atto in così poco tempo.

Fatto sta che né la deputata Mashadani né il suo collega Daini sono stati privati, ancora, dell'immunità parlamentare. E subito dopo l'annuncio del nuovo provvedimento della magistratura c'è stata la levata degli scudi da parte del "Partito Islamico" della quale leadership la Mashadin fa parte, ed è il partito che esprime il presidente del parlamento. I suoi commilitoni del partito di Mashadani hanno considerato tale provvedimento "Un ricatto e un tentativo di bruciare l'immagine di una parlamentare attiva che è stata essa stessa oggetto di attacchi terroristici e rapimenti". Una difesa molto simile a quella alzata in favore del Ex ministro della cultura Asaad Al Hashimi, indicato dalla magistratura come mandante dell'attentato nei confronti del deputato liberale Mithal Al Alousi in cui morirono due dei suoi figli.

Da non trascurare assolutamente la chiamata della guida suprema degli sciiti Ayatollah Ali Al Sistani dalla sua residenza nella città santa di Najaf, al sostegno delle Liste Aperte che offrono al cittadino la possibilità di scegliere i suoi rappresentanti al nuovo parlamento e tolgono ai gruppi etnici e confessionali il dominio sulle sorte del parlamento. La chiamata di Sistani ha avuto subito un forte applauso da molti settori della società irachena. Da un lato, l'idea di Sistani ha coinciso con la richiesta in questa direzione sostenuta da molti partiti e personalità laiche. Sistani ha creato non pochi scompigli tra partiti e gruppi di estrazione sciita che hanno dovuto rinnegare le loro scelte schierandosi in favore della chiamata della suprema guida religiosa. Non di meno è stato l'imbarazzo dei gruppi sunniti di fronte a una scelta di questo tipo e non sarà di minore importanza per i governi dei paesi confinanti cm l'Iraq, in modo particolare L'Iran e La Siria, che dovranno riconsiderare i loro appoggi ai gruppi adeguandoli alla nuova situazione.

Le Liste Aperte riportano tutto alla luce del sole e impongono a tutti i partiti il dovere di presentarsi con programmi credibili e facce fresche e, soprattutto, con mani pulite dal sangue e dalla corruzione. Compito arduo per i settori religiosi che hanno raccolto il consenso con l'ausilio dei simboli religiosi rispettati da gran parte della popolazione. L'utilizzo abusato della religione da parte di molti partiti e milizie ha creato un solco molto profondo tra questi gruppi e gran parte delle popolazioni. Le elezioni dei consigli regionali hanno dato una chiara indicazione in questa direzione. Dure sconfitte sono state rifilate ai rappresentati dei partiti religiosi e non è escluso che lo scenario si ripeta al livello del parlamento nazionale e da qui nasce la preoccupazione che i probabili sconfitti utilizzino il terrore delle autobombe per imporsi.

http://www.articolo21.info/

domenica 25 ottobre 2009

Fare la pace non è facile, di Mariusz Janik


Fonte:
http://www.finanzainchiaro.it/dblog/articolo.asp?articolo=5783

Diplomatici, soldati, poliziotti: dai Balcani all'Afghanistan, l'UE organizza missioni di pace spesso ambiziose. Ma i risultati scarseggiano, sostengono due esperti in un rapporto appena pubblicato.

L'Ue è fiera delle sue forze di pace. In caso di bisogno, Bruxelles può inviare in qualsiasi parte del mondo 10mila poliziotti, e ha a sua disposizione più di 40mila diplomatici. Inoltre, i suoi emissari possono contare sul più alto budget per lo sviluppo al mondo. Peccato che tutto questo non sia altro che un'illusione, sostengono Daniel Korski e Richard Gowan, autori di un'analisi pubblicata dal Consiglio europeo per le relazioni estere (Ecfr).

“Missioni di pace perfette non esistono. Né quelle dell'Onu né quelle degli Stati Uniti sono perfette. Questo non significa che non ci sia niente da imparare da loro. Prendiamo ad esempio l'efficacia del corpo diplomatico americano, o la logistica impeccabile delle missioni Onu”, dichiara Daniel Korski, che ha partecipato a missioni di pace internazionali nei Balcani e in Afghanistan.

Uno dei problemi più gravi nelle missioni Ue è la carenza di personale specializzato. A diversi anni dal suo lancio, anche una delle missioni europee più importanti, la missione di polizia in Afghanistan, coinvolge solo 150 agenti rispetto ai 400 previsti inizialmente, sottolinea Korski.

Modelli inefficaci

Tuttavia, spiegano gli autori del rapporto, anche una forte presenza di consulenti e funzionari europei non basta a garantire il successo di una missione. Come accade nei Balcani, dove la polizia inviata dall'Ue cerca invano da una decina d'anni di riportare l'ordine e il rispetto della legge, ma l'area resta nelle mani delle organizzazioni criminali internazionali che continuano ad utilizzarla come una “terra di nessuno”.

Ma è ancora peggio quando modelli d'azione inefficaci come quelli usati nei Balcani sono esportati e applicati acriticamente in paesi geograficamente e culturalmente lontani. È per queste ragioni che le missioni europee, anche se sono attive ormai da una decina d'anni, sono ancora considerate “piccole, prive di ambizioni e strategicamente insignificanti”.

Le colpe degli stati membri

Non è tutta colpa di Bruxelles: anche gli stati membri hanno le loro responsabilità. Nel loro rapporto, Korski e Gowan hanno diviso i paesi Ue in quattro gruppi: i “professionisti”, quelli “in cerca di...”, gli “agnostici” e i “neutrali”. La Polonia, poco convinta del valore delle missioni civili, è nel terzo gruppo.

Gli autori puntano il dito contro le debolezze di Varsavia. I suoi inviati sono quasi esclusivamente poliziotti (la legge polacca impedisce l'invio di personale civile), e inoltre il paese ha problemi di pianificazione, coordinamento e cooperazione tra i diversi ministeri. Malgrado ciò, l'impegno della Polonia nelle missioni Ue equivale al 44 per cento del totale. Un risultato non da poco, se si pensa che Spagna e Regno Unito sono molto al di sotto (ma i britannici, nel gruppo dei “professionisti”, dispongono di personale molto più preparato). ( Fonte: presseurop.eu)

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DIPLOMAZIA
Giù le mani dagli aiuti

Uno degli effetti della ratifica del Trattato di Lisbona sarà la creazione, a breve, di un nuovo corpo diplomatico europeo, l'European external action service (Eeas). Secondo David Cronin del Guardian, questo corpo internazionale composto da circa 5000 unità “dovrà essere attentamente monitorato”. Anche se i diplomatici lavoreranno per gli affari esteri e le politiche di sicurezza, potrebbero gestire anche il commercio internazionale e gli aiuti allo sviluppo, mansioni molto delicate, sostiene Cronin.

“Il rischio è che gli aiuti – che dovrebbero servire solo a combattere la povertà – potrebbero essere assegnati in funzione degli interessi strategici dell'Europa”. Simili dinamiche, sostiene Cronin, hanno già influenzato la distribuzione degli aiuti negli anni scorsi. “Per sostenere la guerra al terrore di George W. Bush, gli ufficiali europei hanno cercato di investire parte dei fondi per lo sviluppo destinati alle Filippine, all'Indonesia, alla Colombia, al Pakistan e alla Malaysia in progetti di sicurezza”. Gli aiuti servono anche a diminuire il flusso di immigrazione verso l'Europa. “Le politiche di sicurezza sono necesarie”, conclude Cronin, “ma non dovrebbero attingere ai fondi riservati ai poveri”.

Redazioneonline- Stampa Internazionale

Darsi la marrazza sui piedi...


Tempo fa avevo avuto da ridire sul fatto che l'attacco a Berlusconi e la richiesta di dimissioni, condotto in modo massiccio dal PD (Partito DemocrXXXistiano), avesse come bersaglio il comportamento, diciamo così, esuberante del Presidente del Consiglio in materia erotica. Il mio ragionamento era, in sintesi, questo:

- quando, quanto e come Berlusconi faccia sesso è cosa di cui nulla ci importa (a parte l'utilità che ne può venire, in quanto apertura, finalmente, di un discorso non ipocrita sulla sessualità degli anziani);
- nel complesso delle attività erotiche berlusconiane ci interessa invece qualche aspetto politico: per esempio, un capo di governo cena con gente che non conosce: ignora che uno è un esponente della mafia degli appalti, che altre sono volgari prostitute (così dice lui stesso), e che nella sua casa si registra e si filma con facilità - in un caso a evidente scopo di ricatto, ecc. ecc. (per non parlare di ciò che inizialmente ha detto la sua signora, non la sinistra, circa la frequentazione di minorenni e il suo stato di salute);
- eliminare le questioni politiche e tentare la spallata al governo con argomentazioni di stupido taglio moralista è pericoloso, in primo luogo perchè il moralismo e cosa dei papisti ed è meglio che se lo tengano; in secondo luogo perché i papisti si accordano più facilmente con quelli che gli scandali sessuali li sanno coprire (pedofilia ecc.); in terzo luogo perché abitua a valutare l'uomo e la donna politici in base al modo in cui scopano e non in base al modo in cui amministrano.

Il PD (Partito Decotto) scelse purtroppo la strada del moralismo, coerente con la sua strategia di aprirsi prono ai desiderata parrocchiali, e lo fece proprio pochi giorni dopo aver abbandonato a se stesse delle serie iniziative politiche dell'Italia dei Valori. Ora si vedono i risultati: Marrazzo si fa i cazzi suoi (letteralmente) in una casa privata con un privato cittadino, e basta un banale complotto per portare a conoscenza di tutti le sue cose private. Con logica ferrea, Franceschino Dario, il precario segretario, ne chiede le dimissioni immediate (fonte: L'Unità), invece di schierarsi a difesa della vittima di un ricatto (come in altri tempi fece Prodi, con successo, in un caso analogo). La cosiddetta sinistra (sit venia verbo) ai massimi livelli (anche i due candidati alternativi hanno chiesto le dimissioni del reprobo) avalla la nuova politica parrocchiale e si appresta a perdere la Regione Lazio nelle prossime elezioni del 2010. E' anche dubbio che il PD (Partito Dormiente) riesca a conquistare una regione che sia una in tale occasione, ammesso che gli interessi partecipare alle votazioni: in fondo, viste le sue occupazioni negli ultimi sette, otto mesi, potrebbe continuare a coltivare questa arte complessa della scelta del segretario, delle primarie, delle secondarie, se nessun candidato raggiunge la maggioranza assoluta... e potrebbe anche essere una soluzione.

Magari, la prossima volta, prima di chiedere le dimissioni si potrebbe aspettare che qualcuno sia non dico riconosciuto colpevole, ma almeno accusato di qualcosa, perché non risulta che Marrazzo sia indagato per qualche reato. Ma, si sa, in Italia c'è una legge ufficiale e una legge di fatto, nella quale trombarsi un trans è reato di lesa vaticanità. La morale sembra essere una sola: se siete in vena di trasgressioni, provate coi chierichetti: se vi scoprono, pare che sia più facile mettere tutto a tacere.

Tolerancia y multiculturalidad, Eva Lapiedra



Fonte:
http://identidadandaluza.wordpress.com/2009/03/21/tolerancia-y-multiculturalidad-1ª-parte-dedicado-a-mde-epalza/

Dedicado a M.de Epalza

El concepto de “tolerancia” es un concepto moderno que se utiliza referido al pasado medieval. Se utiliza profusamente para hablar del islam,tanto en su aspecto religioso teórico, doctrinal como en su aspecto práctico socio-político.

Dado el interés que suscita actualmente el tema de la tolerancia relacionada con la cuestión de la multiculturalidad, como uno de los temas claves de nuestro tiempo, es importante situar esa tolerancia medieval y, concretamente, islámica, en unas coordenadas espacio temporales adecuadas para no caer en exageraciones y visiones poco realistas de lo que pudo ser esa tolerancia y de cómo la podemos interpretar desde nuestra perspectiva del siglo XXI. Tanto un acercamiento idealizado como, por el contrario, uno que satanice el islam, se alejan de cualquier interpretación de la realidad medieval que busque un mínimo de objetividad. Una realidad que, en lo poco que podemos aprehenderla, siempre será compleja y con muchos matices.

Históricamente, la tolerancia como relación entre los hombres entra tardíamente en la historia. Excepto algunos brotes en la antigüedad y en la Edad Media, hay que esperar a la modernidad para que se abra paso poco a poco.

Primero surge en el ámbito religioso como una herramienta para afrontar las guerras de religión que asolaban Europa durante los siglos XVI y XVII, después en el político y, por último en la vida cotidiana.

En el plano de las ideas, la reivindicación de principio de la tolerancia llega con el holandés Spinoza (1632-1677) y el filósofo inglés Locke (1632-1704) en el siglo XVII y con Voltaire en el XVIII. Locke reivindicó la tolerancia religiosa en su “Carta de la tolerancia” en el año 1685. Este autor defendía que la identidad religiosa no jugara ningún papel público en la vida política sino que se privatizara y, en ese ámbito, se desenvolviera en libertad y sin interferencias, mientras liberaba a lo público de su insoportable peso. No obstante,aunque Locke toleraba toda creencia religiosa, en contraste con la tradición premoderna, no admitía el ateísmo.

En el concepto ilustrado, la tolerancia está vinculada al concepto de libertad y autonomía; el individuo es “señor de sí mismo y propietario de su persona” –dice Locke. En el siglos XVIII con Voltaire y los ilustrados se defiende la tolerancia política y a ella se suman en el s. XIX J. Stuart Mill y otros autores. La tolerancia étnica o sexual sólo se reivindica ya en el siglo XX.

Etimológicamente Tolerantia o tolero son términos latinos que hacen alusión a sufrir con paciencia, a soportar o resistir. Se tolera lo que no se comparte.

Con este primer sentido resaltamos tres puntos:

1)Si tolero es porque puedo no tolerar, es decir, la tolerancia se halla vinculada al poder.
2)No simpatizo con lo que tolero, de hecho, frecuentemente me repugna, pues tolero precisamente lo que considero un mal.
3)Las razones para tolerar se refieren a nosotros, a las consecuencias que para nosotros, los que tenemos el poder de tolerar, tendría no hacerlo.

Es decir, hay dos puntos importantes, la desaprobación por lo tolerado y el poder de obstaculizar o prohibir en el tolerante. En principio, pues, se trata de un concepto negativo, pragmático, prudencial, que contempla la tolerancia como un mal menor, nunca como un bien en sí mismo.

Pero el concepto de tolerancia se ha transformado para adaptarse a nuestra nueva sensibilidad pluralista. Surge la idea de tolerancia como un derecho, una exigencia, tanto política como moral, de reconocimiento del otro y de su derecho a elegir con libertad. Se definiría entonces como “respeto del derecho a la diferencia”. En este nuevo concepto de tolerancia se reconoce y respeta la identidad ajena y dicha tolerancia presupone un horizonte de libertad. Pasa, pues, a ser un concepto positivo. Nótese la diferente connotación en este sentido de “tolerar” y “tolerancia”. Mientras el verbo “tolerar” tiene un sentido negativo, “tolerancia” es un concepto con connotación positiva. De “soportar pacientemente” se pasa a “respetar y considerar”.

En los últimos tiempos se han dado enfoques o perspectivas modernas de la tolerancia debido a que el tema de los grupos culturales ha irrumpido en el ámbito del problema de la tolerancia y así surge el concepto multicultural.

Desde el punto de vista de los multiculturalistas lo crucial no son las diferencias individuales sino las grupales, culturales y políticas. Nos movemos en el ámbito de la tensión mayorías/minorías –el de los rasgos o comportamientos peculiares o “extraños” y desagradables para el grupo mayoritario; en el de la minoría que aparece como amenazante al orden tradicional mayoritario-. Se quiere el reconocimiento público de las diferencias minoritarias.

Frente a los multiculturalistas, que defienden, en contra de los neutralistas, que no hay que neutralizar las diferencias de los ciudadanos privándoles de su identidad, los neutralistas quieren –como los ilustrados- que dichas diferencias se “privaticen”, piden su “no visibilidad pública”.

Ahora vamos a pasar a centrarnos en la época clásica del Islam. En primer lugar, habría que apuntar, tal y como hemos dicho, que la tolerancia como concepto, como idea, no existía en la Edad Media. En la mentalidad premoderna no existe un valor de convivencia entre comunidades distintas. Es decir, para los hombres medievales es irrelevante las buenas o las malas relaciones con los “Otros”. Somos nosotros los que –desde nuestra perspectiva-, valoramos, o etiquetamos como tolerante o intolerante una sociedad del pasado.
No obstante, como nos tenemos que servir de conceptos actuales para denominar realidades del pasado, vamos a ver, hasta qué punto y en qué aspectos se puede comparar el concepto moderno, en su evolución ya mencionada, con las realidades medievales que conocemos.

Para hablar de mentalidades, de concepciones del mundo, me referiré a la mentalidad premoderna –anterior a la modernidad, como su mismo nombre indica-, que es la que corresponde a la Edad Media.

Me parece que hay que tener en cuenta dos aspectos:

I) De los distintos tipos de tolerancia que hemos mencionado: religiosa, política, étnica, cultural, sexual…, la tolerancia medieval es del primer tipo, religiosa porque la identidad en ese periodo se define por la pertenencia a una religión. Dicha tolerancia lleva consigo consecuencias socio-políticas pero, el punto de partida, es la pertenencia del tolerante y el tolerado a confesiones religiosas distintas.

II) En el concepto moderno y contemporáneo de “tolerancia” hemos utilizados términos como libertad, autonomía, individuo y reconocimiento del otro. Sin embargo, al referirnos a la Edad Media, hablamos de sociedades en las que no existen estos conceptos, como tampoco la idea de lo civil, del ciudadano y, sobre todo, de los Derechos Humanos. Como dice F.J. Ugarte en su “Ensayo sobre la intolerancia” (p. 61), “la mayoría de las cosas que nos parecen naturales y permanentes no existían en el pasado”.

Por ello, para situar la relación medieval entre tolerantes y tolerados hay que tener en cuenta la mentalidad que regía las relaciones humanas en un marco más general. Hay que tener presente, expresado de forma muy sucinta, los siguientes puntos:

A) Desigualdad étnico-cultural: los griegos, romanos, bizantinos y árabo-musulmanes, es decir, los representantes de las civilizaciones clásicas y medievales, eran pueblos profundamente persuadidos de su superioridad intelectual y moral respecto a otros pueblos a los que llamaban bárbaros.

B) En relación con el primer punto se encuentra la desigualdad según la geografía: el determinismo geográfico. Los pueblos eran considerados cultos o ignorantes y estúpidos según la zona climática en la que están situados. Es decir, el ambiente influye en la formación del carácter de los pueblos. Y los que hemos dicho que se consideran superiores étnica y culturalmente consideran que viven en un espacio intermedio.

C) Desigualdad ante la ley: el derecho natural. Como argumentan L. Ferry y Alain Renaut en su artículo “El fundamento universal de los derechos del hombre”, el derecho natural antiguo implica una visión desigualitaria del derecho; puesto que lo justo es lo que corresponde como propio a cada cosa en virtud de su naturaleza y dado que las naturalezas están jerarquizadas, conforme al derecho natural quienes tienen una naturaleza baja se someten a la autoridad y quienes tienen una naturaleza elevada ejercen el poder. Así pues, el principio de lo justo no es la igualdad sino la proporcionalidad, es decir, el establecimiento de un orden jerárquico a imitación del orden cósmico.

Por ello estos mismos autores consideran que aunque la expresión derechos del hombre tenga indiscutiblemente raíces fuera de la modernidad (tanto en la tradición judeo-cristiana como en el pensamiento estoico) sigue siendo cierto que la expresión “jura hominum” no aparece hasta 1537 y que es evidente que semejante concepción del derecho natural, que rechaza por definición la idea de derecho igualitario, es radicalmente incompatible con la problemática moderna de los “derechos del hombre”, que supone, por el contrario, la afirmación de la existencia de una naturaleza humana común, por lo que habría que admitir que en el mundo premoderno la desigualdad jurídica era la regla. Existían pues, jerarquías entre los nobles y el pueblo, los libres y los esclavos.

En el tratado de Hisba de Ibn ‘Abdún se dice que “a nadie absolverá el zalmedina por una falta contra la ley religiosa, más que si se trata de personas de elevada condición a quienes se absolverá según el hadiz: «Perdonad a las gentes de condición elevada, pues para ellas la reprimenda es más dolorosa que el castigo corporal». Otros ejemplos, tanto orientales como andalusíes, recogidos por E. García Gómez redundan en la misma idea:

“Al esclavo se le castiga con el palo;
Pero al hombre libre le basta la amenaza”.

O: “No corrige el esclavo nada más que el golpe en la cabeza;
Mientras al libre le basta que lo encuentres censurado”.

No hay que perder, pues, la perspectiva de que la tolerancia religiosa medieval se da en sociedades jerarquizadas en las que se tiene la idea de que hay seres humanos superiores e inferiores.

Es algo comúnmente aceptado que es el islam la religión que sentó las bases de la tolerancia medieval entre las tres religiones monoteístas. El islam, al ser la tercera religión revelada establece desde el principio unas normas de convivencia con judíos y cristianos. Muy brevemente mencionaremos las bases de dicha convivencia:

- los judíos y cristianos que quedan en un territorio conquistado por musulmanes pueden conservar su religión acogiéndose a un pacto entre ellos, los sometidos, y los musulmanes, los vencedores. Según ese pacto –dimma- judíos y cristianos se someten al poder socio-político musulmán y obtienen la protección del Estado islámico a cambio del pago de un impuesto –yizia. Dicho impuesto ha sido interpretado como un símbolo de humillación y sometimiento –por el texto coránico en el que se cita- o como una contraprestación mediante la cual judíos y cristianos no combaten en el ejército pero son protegidos por él.

Las comunidades de judíos y cristianos protegidos por el islam pueden, como hemos dicho, vivir en una sociedad árabo-islámica sin abandonar la práctica de su religión, pero deben aceptar una serie de condiciones que se pueden resumir en los siguientes puntos principales: no traicionar a los que les protegen ( es decir, no insultar al islam ni apoyar a sus enemigos), no molestarlos, pasando lo más desapercibidos posible (es decir, no hacer sonar las campanas, no celebrar procesiones, no hacer proselitismo…), saber que, en el ámbito social, se encuentran por debajo de los musulmanes, sometidos, subordinados, y que el ámbito político les está vedado.

Bajo estas premisas –más estrictamente puestas en práctica o menos según las épocas- es donde hay que situar la tolerancia del islam hacia judíos y cristianos en la época clásica. Es decir, judíos y cristianos son tolerados a pesar de estar equivocados –según la concepción islámica-, a pesar de no haberse dado cuenta de que la última revelación, la del Profeta Mahoma, es la que corrige, completa y cierra el ciclo de las revelaciones de Dios a los hombres. Por ello, podemos afirmar que, si hablamos de tolerancia islámica medieval, solo lo podemos hacer según la primera de las definiciones modernas analizadas, es decir, el de la tolerancia como un concepto negativo y pragmático, como un mal menor, no como un bien en sí mismo. Por consiguiente, no podemos hablar de la tolerancia medieval, en ningún caso, como un derecho, una exigencia, tanto política como moral, de reconocimiento del otro y de su derecho a elegir con libertad – tal y como hemos visto que evoluciona el término hacia una concepción positiva. Pues el “respeto del derecho a la diferencia” donde se reconoce y respeta la identidad ajena no se da en la Edad Media, ni en una sociedad regida por los musulmanes ni en la dominada por los cristianos.


David Peña Dorantes. Piano flamenco.


Genocidio morisco


http://genocidiomorisco.blogspot.com/ Un'intera monografia sul genocidio morisco e l'espulsione del 1609 in cinque capitoli.

Los moriscos y el siglo de oro, di Luce López Baralt/Universidad de Puerto Rico



Fonte:
http://identidadandaluza.wordpress.com/2009/08/31/los-moriscos-y-el-siglo-de-oro/

Escribiendo desde las ínsulas extrañas: Reflexiones de una hispano-arabista puertorriqueña.

El célebre ‘Orientalism’ de Edward Said deja como herencia una ardua tarea a los orientalistas de lengua española: repensar nuestra condición de estudiosos frente al corpus de trabajo que hemos elegido. Y lo digo porque Said deja fuera de su estudio justamente el orientalismo más conflictivo y más problemático de Europa: el orientalismo español.

Me confesó personalmente, con un candor que le agradecí mucho, que no abordó los estudios orientalistas en España por el abismal desconocimiento que tenía del tema, que prefirió, por prurito intelectual, dejar intocado. Alguna explicación tiene la dramática laguna del maestro, que tanto he echado en falta en su libro; y es fundamentalmente una disciplina tardía en el contexto del orientalismo europeo, que dio figuras de nota ya desde el siglo XVIII (Recordemos que Napoleón se sirvió de orientalistas franceses en su proceso de colonización de Egipto).

Ha sido en épocas relativamente recientes —a partir del siglo XIX— que España ha producido estudiosos como Eduardo Saavedra y Julián Rivera. Y, sobre todo, figuras de la talla internacional de un Miguel Asín Palacios. No nos debe asombrar demasiado este florecimiento tardío del arabismo español: es entendible que resulte extraño, acaso incómodo e incluso conflictivo, estudiar como una cultura extranjera, una cultura que se encuentra injertada en la propia historia nacional.

Aunque no es este el lugar de entrar en la célebre polémica Américo Castro-Sánchez Albornoz, es fuerza admitir que un español no puede abrir las páginas de una historia de su país sin encontrarse de frente, para bien o para mal, con la presencia árabe. Presencia abrumadora por cierto, incluso, para algunos, ominosa.

La más rápida revisión de la obra de Asín Palacios pone en seguida de relieve la incomodidad que debió sentir el insigne maestro en carne viva cuando se decide a abordar el estudio de la espiritualidad de los musulmanes; sus inmemoriales enemigos de la fe. Para colmo, se estaba topando el estudioso con una espiritualidad inesperadamente compleja y exquisita, que venía a contradecir la visión caricaturesca del musulmán salvaje y a medio civilizar que no pudo haber legado nada de valor a sus antiguos compatriotas peninsulares.

Sacerdote católico, parecería que Asín se sintió precisado a “prestigiar” de alguna manera su espinoso campo de estudio, proponiéndole un origen y unas influencias cristianas que lo capacitaran mejor como campo digno de reflexión erudita. Todo ello, a despecho de que los textos estudiados por Asín daban prueba flagrante de que la literatura extática sufí no sólo era de una sofisticación verdaderamente asombrosa, sino que precedía por muchos siglos a la gran literatura mística del Siglo de Oro, con la que parecía guardar relaciones estrechas. (Sospechosamente estrechas).

De ahí el título y el enfoque que Asín decide dar a algunos de sus libros: El Islam cristianizado, Algazel y su sentido cristiano (enfatizamos cristianizado y cristiano). Es tan tarde como en sus Sâdilîes y alumbrados; póstumo, que el maestro se anima a privilegiar el caso inverso, que hoy parece obvio a cualquier estudioso de la materia: la influencia islámica sobre algunos de los místicos españoles más preclaros. Nada menos que San Juan de la Cruz y Santa Teresa de Jesús, junto a los heterodoxos alumbrados, exhiben una perturbadora cercanía a la espiritualidad de “tariqas” sufíes como la de los sâdilîes hispano-africanos. Era el estudio más valiente del maestro, pero tardó varias décadas en editarse en forma de libro. Y la edición hubo de hacerse desde este lado del Atlántico desde el que redacto estas páginas.

El diálogo que ha sostenido la literatura española con su contrapartida árabe todavía se encuentra en proceso de estudio. Dada la importancia de las huellas del Islam —la frase es de Asín y hoy la he hecho mía— en la literatura peninsular, es asombroso que aún no las hayamos reconocido del todo.

Estamos en el proceso de en tender, y —lo que es aún más sorprendente— de descubrir este antiguo legado cultural, que se encuentra vigente hoy en más de un sentido. España fue el único país europeo que fue simultáneamente occidental y oriental en los primeros siglos de su formación como pueblo; y es imposible imaginar que esta peculiar situación histórica no tuviera consecuencias importantes.

Echemos un vistazo rápido a la honda imbricación entre estas dos culturas tal como se evidencian en algunos de los textos literarios más importantes de la Península.

Salta a la vista, en primer lugar, la suprema ironía del hecho de que la primitiva lírica española aparece como cota de extensos poemas cultos en árabe y en hebreo. Estas jarchas mozárabes de los siglos X y XI, que sirven de apéndice poético a las moaxajas, exigen un lector bilingüe —mejor, trilingüe y aún así, su dificultad es considerable, ya que el mozárabe se encuentra en caracteres árabes o hebreos sin vocalizar. Incluso hay estudiosos como Richard Hitchcock que sospechan que la lengua de estas jarchas podría ser árabe vulgar en vez de mozárabe, y, aunque el tema es motivo de una polémica encendidísima en estos mismos momentos, cabe concluir lo increíble: Aún no estamos totalmente seguros del idioma en que se cantó la primera poesía española.

Aún más: admito que nunca me he repuesto de la sorpresa de que, para ser un hispanista experto en el campo del medioevo español, habría que ser además, un buen orientalista. Ni más ni menos: de lo contrario, no podríamos si quiera comenzar a leer los textos que serian motivo de nuestro estudio como medievalistas.

Escuchemos lo que canta una de esas muchachas de hacia el siglo X. como las describía, emocionado ante el descubrimiento de las jarchas, que aún era reciente. El maestro Dámaso Alonso. Pero, ¿qué canta nuestra doncella? Non t´amarey allâ kon ash sharti // an taÿma jal jâlî ma´a qurtiEs decir: “No te amaré sino con la condición // de que juntes mi ajorca [del tobillo] con mis pendientes”.

La desenvuelta joven situándose en las mismas antípodas de la castísima Jimena del Cantar de Mio Cid, pide lo impensable: que su rendido galán le haga el amor. Y pasa a describir con un desenfado gozoso, y sirviéndose de una ingeniosa imaginería a base de joyas, el esfuerzo físico que formará en el momento de la cópula sexual, en que quedarán unidos sus pendientes con la ajorca de su tobillo.

Si estos versos constituyen uno de los primeros ejemplos de la lírica hispánica, estamos verdaderamente ante una poesía europea bastante extraña, y muchos menos “casta” de lo que quiso Ramón Menéndez Pidal. Urge revisar el “wishful thinking” del admirado maestro; ya que queda desmentido una y otra vez, a la luz de la documentación que vamos descubriendo de estos antiguos poemas. Y no debe extrañar al lector que los orígenes árabes de esta jarcha tan soleadamente sensual sean palmarios: he podido documentar los mismos versos en los tratados eróticos de `Alí al-Bagdadî, y Nefzâwî.

Resulta una vez más irónico el hecho de que el poema épico español por excelencia, el Poema de Mío Cid, llame al héroe con un nombre árabe – Mio Cid – , es decir, “mi señor”. Sí leemos con cuidado las primeras páginas del venerable poema, advertimos que nuestro guerrero cristiano paradigmático va a batalla con un ejército mixto de cristianos y de moros. Insólito pero cierto; y además, históricamente viable. El dato, inesperado cuando lo leemos desde nuestras coordenadas históricas modernas, lo suele pasar por alto el lector de hoy, pero es de veras elocuente. El Cid llega a más: incluso combate contra cristianos en defensa de sus aliados musulmanes como Almutamid de Sevilla, el rey taifa que fue también un extraordinario poeta. Salta a la vista que la línea divisoria entre las lealtades políticas y religiosas se muestra borrosa en la epopeya castellana.

Pocos críticos niegan hoy los elementos arabizantes del “Libro de buen amor” un texto desconcertante en el que el autor tiene a bien celebrar simultáneamente el “loco amor” y el “buen amor”, en una asombrosa unión de erotismo y espiritualidad que parece más afín a expertos árabes en la materia como lbn Hazm de Córdoba, que a autores europeos como aquellos -Ovidio Nasón y Pamphilo- que reclama el travieso Arcipreste de Hita como paradigmas literarios. Pero ello no nos debe extrañar demasiado. Juan Ruiz rima en un árabe dialectal impecable: concibe el ideal estético femenino en términos de una típica fémina árabe.

Cómo señaló Dámaso Alonso, esta -bella- es anchieta de caderas-, tiene los dientes -apartadiellos-; las encías bermejas y los labios delgados. El revés exacto pues de la europeizante Melibea, con sus cabellos dorados, sus labios “grosezuelos” y sus ojos verdes. La crítica ha pasado por alto cómo eran los grandes ojos orientales de la -bella- de Juan Ruiz: el poeta nos los describe como “reluzientes”. Estetas árabes como Nefzâwî también exigían estos mismos ojos “reluzientes”, es decir, muy negros, de manera que contrastaran con el blanco del ojo. Este contraste luminoso es precisamente lo que traduce el término árabe “hur”, de donde viene la españolización de -hurí-. Conmueve pensar que el ideal estético del Arcipreste se acercaba nada menos que al de una hurí del Paraíso coránico. No se mostraba muy europeo el bueno de Juan Ruiz en sus preferencias estéticas…

Estamos recién comenzando a calibrar la profunda huella que el misticismo español tiene contraído con el musulmán. San Juan de la Cruz ha -aterrado- a los estudiosos occidentales —así lo admiten, literalmente, Marcelino Menéndez Pelayo y Dámaso Alonso, entre tantísimos otros que han temido acercarse a una poesía que les sonaba excesivamente “extranjerizante”. Pero San Juan la defiende con una apasiona da lucidez: la experiencia mística trasciende totalmente el lenguaje y queda mejor expresada en aquellos versos visionarios que el poeta observó parecían “dislates”. El santo se encuentra curiosamente cerca del concepto sufí de los Xatt, que traduce exactamente de la misma manera. El Reformador parecería estar familiarizado con la imagen asociada a la palabra árabe xatt que significa -costa, ribera, playa-, y que hace alusión a todo lo que rebosa su cauce normal. Al hacer la desasosegante defensa de su estética del delirio en el prólogo al Cántico, San Juan maneja sus “dislates” de la misma manera: los extáticos quedan, literalmente, afásicos y con “figuras, comparaciones y semejanzas antes rebosan algo de lo que sienten y de la abundancia del espíritu vienen secretos y misterios [que] parecen dislates…”. El término, y sobre todo la poesía delirante que defiende son totalmente desconocidos en el misticismo europeo.

Y, sin embargo, resulta la regla en la escuela poética mística de los contemplativos del Islam como lbn-al-’Arabî e Ibn al-Fárid. Al igual que ellos, San Juan se ve precisado a comentar sus poemas alucinados en una prosa que resulta tan enigmática, como la poesía que pretende dilucidar.

Asín Palacios trazó, como se sabe, el célebre símbolo de la noche oscura del alma a lbn ´Abbâd de Ronda. He tenido la fortuna de documentar en la literatura mística islámica numerosos símbolos adicionales: el vino de la embriaguez mística, la fuente interior que refleja los ojos del Amado en el éxtasis transformante (en árabe. ´ayn significa simultáneamente “ojo”, ”fuente”, e “identidad” y San Juan, de alguna manera. parecería participar del secreto semántico al fraguar el símil de la cristalina fuente del Cántico); del gusano de seda del alma en vuelo, el pájaro solitario que tiene todos los colores y a la vez no tiene determinado color, porque está desasistido de lo criado, las azucenas del dejamiento, entre muchos otros casos…

Asín documentó el símil de los siete castillos concéntricos del alma de Santa Teresa de Jesús en los anónimos Nawâdar; pero el texto pertenecía al siglo XVI, y podía ser contemporáneo o posterior a la santa. Una vez más, tuvimos la fortuna de encontrar evidencia documental al efecto, los “Maqamât al-qûlûb” o Moradas de los corazones de Abú-l-Hasan al-Nûri que es un tratado místico que retrotrae el símbolo de los castillos al siglo IX. Debemos estar pues ante la presencia de una imagen recurrente en el misticismo musulmán; de seguro, buena parte de la extrema “originalidad” de los místicos españoles se debe a la influencia del sufismo; y al desconocer estas coordenadas literarias islámicas, nos parece entonces absolutamente novedosa su aparición subrepticia en las letras españolas. Algún día estaremos más inclinados a pensar que se trata más que de una invención “ex nibilo” por parte de los espirituales del Siglo de Oro, que una adaptación genial (acaso, o consciente) de antiguos modelos orientales. Los paralelos son tantos y tan minuciosos que de verdad desafían la tentación de explicarlos a base de una simple coincidencia.

Resulta irónico, una vez más, el que Cervantes adjudicara la escritura de su Quijote a Cide Hamete Bengelí un autor árabe. Cervantes parecería estar implicando que los mejores impulsos creativos de su alma son, de alguna manera oculta, árabes. Mucho que temió, por cierto, Don Quijote aquella imaginación excesiva, y aún aquella peligrosa sensualidad de este supuesto autor que había imaginado su historia. Le resultaba terriblemente preocupante eso de deberle la propia existencia nada menos que a un musulmán. Cervantes, sin embargo, parecería reír por lo bajo y afirmar con ironía solapada; Cíde Hamete, “c´est moi”.

La broma es espléndida, porque también tiene claros sobretonos políticos; poseer —y aún más escribir o traducir— un texto árabe era un crimen político en la España del siglo XVII. Cervantes nos está diciendo de manera ubicua, que el Quijote era no sólo un libro oriental sino un libro prohibido, que podría dar pie a un proceso inquisitorial. Todavía no hemos pensado en sus propios términos las implicaciones profundas e inquietantes del hecho de que Cervantes usara una máscara literaria árabe.

Es necesario ser un experto en el alifato árabe para poder descifrar la literatura aljamiado-morisca, escrita en castellano, pero transliterada en caracteres árabes. Esta literatura del Siglo de Oro, rigurosamente clandestina e inédita en su mayor parte, nos permite el privilegio de asistir de cerca al proceso de extinción de los últimos musulmanes de España, tal como ellos mismos lo vivieron y lo interpretaron. Al fin el pueblo en litigio tiene la palabra.

El morisco Yûse Banegas llora con el Mancebo de Arévalo la caída de Granada, y nos estremece pensar que es la primera vez que escuchamos un llanto auténtico por la caída del último bastión del Islam. Aquí no hablan ni los archivos inquisitoriales ni los escritores maurófilos oficiales, sino los mismísimos moriscos vencidos: Hiÿo , yo no lloro lo paxado, puwes a ello no ay rretornada pero lloro lo ke tu berás si ax bida, i atiyendes en esta tyerra, y en esta isla de Eshpaña [...] max aún xerá nuweshtoro addîn [religión] tan menoxkabado ke dirán las ÿentesh ¿a dónde se fuwé nuwextroro peregonar? ¿ke Se hizo el addîn [religión] de nuwestroros pasâdos?. I todo Será kurudeza i amargura para kiyen abrá xentido. Bien te parezerá ke lo digo komo apasiyonado, pleg(we) a xu bonddd [de Dios] ke Sea tan aluwente mi dicho komo lo ex mi deseo, ke yo no kerriya alcanzar tales llorox. [...] Si los padresh aminguan el addîn [religión] ¿kó mo lo enxalsarán los choznosh?. Shi el rrey de la kronkishta [Fernando el Católico] no guwarda fidelidad ¿ké aguwardamosh de Sus Sucesores? Uno de los textos más importantes de todo el corpus morisco es el tratado erótico que he llamado el Kâma Sûtra español por falta de otro mejor título. Este desconcertante manual de amores de principios del siglo XVII, escrito por un morisco anónimo expulsado a Túnez en aquel año dramático de 1609, es un verdadero acontecimiento en la historia de la literatura española. El autor describe el coito en todos sus pormenores: el juego previo a la cohabitación, las posiciones sexuales, y el orgasmo simultáneo. Celebra el placer sexual como anticipo de la contemplación misma de Dios. Sus instrucciones eróticas, ajenas a todo sentido de culpabilidad, se encuentran entreveradas de oraciones y de azoras coránicas. El antiguo maestro nos ofrece la lección más insólita de las letras hispánicas: nos enseña a hacer el amor rezando. Nunca lo habíamos oído en lengua española: el sexo nos lleva a Dios. El morisco, cita generosamente numerosas autoridades islámicas que avalan sus novedosas enseñanzas, desde Algazel hasta Ahmad Zarrûq, pero, para nuestra sorpresa, hace desfilar a sus maestros orientales junto a una “autoridad” española absolutamente inesperada: nada menos que Lope de Vega, cuyos sonetos entreveran y aun sirven de broche de oro al Kâma Sûtra español.

Sencillamente, no sabíamos que la literatura del Siglo de Oro fuera capaz de hablar en estos registros. Nos obliga a la humildad pensar que todavía la estamos descubriendo y que aún no hemos terminado de editada.

Los últimos moriscos de España cesaron de ser una realidad histórica vigente hacia el siglo XVIII. Pero hasta nuestros días, la cultura española continúa dialogando con un complejo pasado cultural que debe mucho, como hemos podido comprobar, al Islam.

Hay una pasión muy intima en Manuel Machado (que ya es un poeta del siglo XX) cuando canta: “yo soy como los hombres que a mi tierra vinieron, soy de la raza mora, vieja amiga del sol, que todo lo ganaron, y todo lo perdieron. Tengo el alma de nardo del árabe español…”. Su evolutiva autoafirmación de que posee una larvada identidad morisca —como aquella que nos confesaba Cervantes entre bromas— lo separa indefectiblemente de las “belles lettres” maurófilas europeas y aún norteamericanas, como las de un Washington Irving. Estos autores extranjeros podían manejar el campo de la maurofilia literaria como algo auténticamente exótico. El exotismo de este campo, sin embargo, hace crisis en España: los escritores peninsulares tienen la inquietante impresión de que se están sirviendo de un material literario que no es completamente ajeno a su identidad nacional.

Esta apasionada admisión de poseer una identidad morisca oculta e inconfesada la habrá de repetir Federico García Lorca, quien posaba para la posteridad vestido con atuendo moro. Federico advertía que “… los sepulcros de los Reyes Católicos no han evitado que la media luna salga en los pechos de los más finos hijos de Granada. La lucha sigue viva [...] en la colina roja de la ciudad hay dos palacios, muertos los dos: la Alhambra y el Palacio de Carlos V, que sostienen un duelo a muerte que late en la conciencia del granadino actual”. Lorca se jactaba, de otra parte, de poseer “duende” (ÿinn en árabe): el concepto enigmático de este nimbo sagrado y mágico que aureolaba no sólo sus versos sino su persona es difícil de traducir a lenguas europeas, pero coincide perfectamente con el término árabe de baraka. No en balde Federico, entusiasmado ante la deslumbrante poesía hispanoárabe que acababa de conocer gracias a las traducciones de Emilio García Gómez, tituló su último libro de poemas Diván del Tamarit. Su moderno “Diwân” venía así a homenajear y a formar escuela —toutes proportienes gardées — con los antiguos poetas de Al-Andalus, su moderna Andalucía.

Las peculiaridades y aún las dificultades de ejercer este orientalismo como disciplina ajena ha hecho crisis más de una vez entre los arabistas españoles modernos. Me conmovió profundamente la perplejidad de María Ángeles Durán cuando abre el primer ensayo de la colección La mujer en Al-Andalus con una pregunta sobrecogedora y sincerísima: ¿estamos hablando aquí de un “ellas” o de un “nosotras”?.

Esta intuición subliminal de que en el fondo del alma española subyace de alguna manera una identidad morisca la volverá a repetir Juan Goytisolo; que ha dedicado la mayor parte de sus novelas y aún de sus ensayos a explorar la relación de España con su pasado oriental.

Señas de identidad nos presentaba ya de manera palmaria el conflicto de identidad del autor, y este conflicto estalla en la Reivindicación del Conde Don Julián. Aquí Goytisolo recupera la figura del “traidor” Don Julián, quien, según la leyenda, jugó un papel importante en la invasión de la Península por los árabes en 711. Don Julián/Goytisolo llega al extremo de invitar a los árabes a que lleven a cabo una segunda invasión metafórica de su patria: lo que está pidiendo de veras el escritor es que España asuma finalmente su pasado, parcialmente semítico, y enterrado, por ella misma, en lo más hondo del subconsciente nacional. Todas las otras novelas de Goytisolo giran, de una manera o de otra, alrededor de este conflicto de identidad.

Makbara, que significa “cementerio” en árabe, se inspira en la experiencia literaria oral del mercado o halka de Marraquech; mientras que las Virtudes del pájaro solitario, celebra como figura tutelar a un San Juan de la Cruz perfectamente arabizado. Acaso el momento más extremo de la narrativa goytisoliana se da en Juan sin tierra, cuando el autor termina la novela, sin más, en lengua árabe. (El autor, dicho sea de pasada, habla un árabe dialectal – el hassanía – fluido y vive la mitad del año en Marruecos). En su más reciente Cuarentena, que escribe esta vez bajo la égida del Sheyj al- akbar o mayor de los maestros espirituales; Ibn al-´Arabî , el protagonista ficcionalizado sobrevuela makbaras musulmanes en el interregno de los primeros cuarenta días de la muerte: todavía en el más allá, parecería decimos Goytisolo, ha decidido mantener su personalidad “morisca”.

Vemos pues que lo oriental se desliza subrepticiamente —cuando no con violencia— en numerosos textos que conforman la literatura española desde la Edad Medía hasta nuestros días. Una y otra vez, las “belles lettres” peninsulares insisten ominosamente en esa perturbadora cercanía a contextos literarios y humanos árabes: desde la primera lírica española, de un mestizaje cultural flagrante, pasando por las incursiones en terreno islámico del simpatiquísimo Juan Ruiz, que debió chapurrear el árabe dialectal acaso tan bien como el que le escuché una tarde en la plaza de Xemaa´ al-Fná a su tocayo Juan Goytisolo; por la máscara literaria sobrecogedora de Cervantes, que termina por celebrar literariamente aquellos mismos musulmanes que lo mantuvieron preso en Argel por cinco años; por aquellos símbolos místicos de la noche oscura y de los siete castillos concéntricos del alma, que hoy sabemos los estrenaron los sufies siglos antes de que nuestros santos del Carmelo los hicieran famosos en Occidente; por el atuendo musulmán con el quiso pasar a la historia el poeta español más famoso del siglo XX, García Lorca; hasta el inquietante sobrevuelo de tumbas marroquíes de Juan Goytisolo, que se declara morisco hasta la muerte.

Nada de lo dicho —y nos hemos limitado a espigar unos pocos casos representativos—es casual. No estamos ante la excentricidad de unos españoles sin “ganas” como diría Luis Cernuda, sino ante la punta del témpano de una antigua angustia, de una oculta agonía: la de no poder saber más allá de toda duda cuáles son las coordenadas que conforman “la identidad nacional”.

La rebelión de la Alpujarra, di José Urbano Priego



Fonte:
http://identidadandaluza.wordpress.com/2009/09/27/la-rebelion-de-la-alpujarra/

Según expuse en mi artículo anterior, el excesivo celo con que Felipe II y sus principales asesores decidieron hacer cumplir los anteriores edictos en vigor, además del que él mismo promulgó a final de 1567, exasperó sobremanera a los moriscos.

Algunos dicen que Felipe II no era del todo partidario de promulgar medidas tan drásticas, pero que el fanático ministro y cardenal Diego de Espinosa, que tenía un enorme predicamento sobre él, le instigaba de continuo con el argumento de que el rey español era el principal valedor de los acuerdos del recién concluido Concilio de Trento, y por tanto no podía mirar hacia otro lado. Lo más razonable es pensar que confluyó aquí el ala más dura del ámbito civil y eclesiástico de la época, auspiciados por un rey marcadamente sectario. En palabras llanas, se juntó el hambre con las ganas de comer.

Los llamados moriscos —cristianos nuevos de moro—, en su mayoría, se consideraban ciudadanos normalizados, y, aunque fuera por miedo, lucían sus nombres cristianos que les fueron impuestos al convertirse de modo forzoso. Por lo general estaban imbricados, con más o menos entusiasmo, en las estructuras sociales y económicas castellanas. No obstante, muchos seguían considerando su situación como un atropello, defendían su orgullo como descendientes de musulmanes, y trataban de mantener en secreto su verdadera creencia islámica como una prerrogativa a la que tenían derecho. Pero hay que decir que esto se contemplaba como el anhelo de vivir su propia espiritualidad, con carácter íntimo y desprovisto de cualquier reivindicación política, y mucho menos de reconquista militar. En definitiva, lo que pretendían era que les dejasen vivir su fe en paz.

Teniendo como referencia las fructuosas negociaciones habidas en la década de los 20 con Carlos I, durante 1568 los moriscos enviaron delegaciones de sus principales a Madrid para negociar, en un intento desesperado de preservar su estatus. Pero esta vez se encontraron con una barrera infranqueable. La extremista Corte de Felipe II no estaba dispuesta a ceder un ápice. Tras un año entero de intentos de diálogo fallidos, comprendieron que tenían que resignarse a cumplir lo promulgado.

No tardaron en surgir las primeras voces llamando a la insurrección. Estas brotaron una vez más en el barrio del Albayzín, durante la segunda quincena de diciembre de 1568, pero ante las escasas adhesiones en Granada capital, el descontento fue extendiéndose por el valle de Lecrín y La Alpujarra. En líneas generales, el esquema de la rebelión fue el mismo que en 1499-1501.

En cuestión de pocos días prendió el levantamiento. Ya en este punto, lo propio era nombrar un emir que organizara las maniobras. Hasta en esto comenzó mal la cosa. Los moriscos eligieron a Hernando de Córdoba y Válor, del poderoso clan de Los Valoríes, apodo que proviene por haberse instalado su parentela en la villa alpujarreña de Válor. Hernando era a la sazón Caballero Veinticuatro del Cabildo de Granada, hasta unos días antes que vendió el cargo al morisco Miguel de Palacios, desesperado por las dificultades económicas que sufría. Bajo un olivo de Béznar como toda ceremonia, en los últimos días de 1568, Hernando fue nombrado “Rey de los moriscos”, ante su tío Ibn Sagüar (Hernando el-Zaguer) y otros notables moriscos granadinos. Adoptó el nombre de Mohammed ibn Umayya —conocido en la historiografía castellana como Abén Humeya.

Digo que hubo mal comienzo porque Farax Ibn Farax —noble descendiente de la heroica tribu de Los Abencerrajes—, quien, contando con el apoyo de los del Albayzín reivindicaba el liderazgo para sí, mostró fogosamente su disconformidad. Tras un tenso tira y afloja, resolvieron nombrar Capitán General a Ibn Sagüar y Alguacil Mayor a Ibn Farax. Aún así, éste aceptó a regañadientes y no quedó del todo satisfecho. Sin querer anticiparme a los hechos, esta disensión inicial sería clave en el desarrollo y desenlace de la contienda que se iba a librar.

El todavía desorganizado bando morisco dejó el valle de Lecrín y tomó camino de Lanjarón, donde el día 23 quemaron la iglesia con algunos beneficiados locales dentro. Siguieron hasta Órgiva, villa con 15 lugares o alquerías dependientes. Por allí donde pasaban se iban adhiriendo más rebeldes a la causa. Continuaron camino hasta llegar a la taha de Poqueira, cuyas cuatro alquerías —Capileira, Alguazta, Pampaneira y Bubión— se alzaron el viernes 24 de diciembre de 1568, día de Nochebuena.

Cual bola de nieve, los insurrectos iban creciendo a medida que avanzaban por aquellas escarpadas sierras. De ahí pasaron a la taha de Ferreira, a la que pertenecían 11 lugares —Pitres, Pórtugos y Busquístar, entre otros—. Los moriscos, organizados en comandos, se adentraban en los núcleos proclamando sus arengas en contra de Felipe II y a favor de su flamante rey Ibn Umayya. Continuaron su marcha Alpujarra arriba: la taha de Jubiles, la de Ugíjar, Laujar, la zona del Marquesado y todas las comarcas orientales almerienses. En pocos días había fructificado el levantamiento por buena parte de los territorios del antiguo reino nazarí.

Pero, claro, la cosa no iba a quedar así. Felipe II envió a la zona un nutrido ejército desde dos flancos diferentes: uno desde Granada a las órdenes del Capitán General Íñigo López de Mendoza III marqués de Mondéjar, con 400 soldados a caballo y 2.000 infantes, y otro que partió desde Vélez Blanco al mando de Luis Fajardo II marqués de Los Vélez.

Por su parte, Ibn Umayya envió embajadores a Argel y Constantinopla solicitando ayuda. Una vez más, el apoyo se quedó en poca cosa. Sí recibió promesas y buenos deseos, pero muy pocos efectivos militares o dinero para adquirir armas. El sultán Selim II, sucesor de Solimán el Magnífico, se excusó por estar enfangado en la conquista de Chipre. De los pocos que vinieron, parece ser que la mayoría era gente de la piratería, que funcionaban de forma casi autónoma del sultanato. También se dice que Guillermo de Orange apoyó el bando morisco, como forma de debilitar a Felipe II en sus luchas de Flandes. Pero en cualquier caso, el respaldo sería más moral que efectivo.

Lo que sí quedó de manifiesto muy pronto fueron las desavenencias personales entre el marqués de Mondéjar y el de Los Vélez, abanderados del ejército católico-castellano. Discrepancias que afectaban también a los aspectos tácticos de la campaña, lo que sumió en el desconcierto a la soldadesca, que se lanzaron al pillaje, a la violación de mujeres y niñas, y a toda clase de desmanes que flaco favor hicieron a la causa cristiana. Estos generales permitían que sus soldados vendieran por su cuenta y para su propio beneficio a los prisioneros que iban haciendo, con lo que espolearon todo tipo de excesos entre las tropas.



Los arráeces moriscos organizaron a sus gentes en comandos de guerrillas, que, conocedores de la complicada orografía de La Alpujarra, infligieron serias derrotas a los ejércitos reales. En Válor, por ejemplo, varios comandos de vecinos civiles derrotaron a un escuadrón de 800 soldados al mando de los capitanes Álvaro de Flues y Antonio de Ávila, quienes fueron ejecutados junto a gran parte de la tropa.

Entre el envalentonamiento de los insurrectos y las desavenencias, cada vez más patentes, de los dos ejércitos castellanos, la cosa no pintaba bien para la causa de Felipe II. El levantamiento se había propagado ya a la sierra de Bentomiz, a la serranía de Ronda, a Frigiliana y amplias zonas de la Axarquía malagueña, y por el flanco oriental a Guadix, Baza, Cuevas de Almanzora, Carboneras y Lorca, ya en la zona murciana.

El 17 de marzo acaeció otro hecho que resultó detonante en el conflicto. Pedro de Deza, presidente de la Audiencia de Granada, ordenó armar a los presos de la cárcel de esta ciudad para que asesinaran a los 110 moriscos notables que tenían allí detenidos como rehenes desde el principio de la revuelta. Cuando la noticia de este desafuero llegó a oídos de Ibn Umayya, éste legitimó su justificación para recrudecer sus métodos.

En esta tesitura, a últimos de marzo de 1569, Felipe II decidió enviar a la zona a su hermanastro, el prestigioso general Juan de Austria, con sus poderosos Tercios de Flandes. El rey tuvo que apostar fuerte si no quería que la campaña se le fuese de las manos. El príncipe don Juan, asistido por Luis Quijada y al frente de sus experimentadas huestes, llegó a Iznalloz el 12 de abril. Quedó en Granada unos días tomando contacto con la situación, preparando su plan, y dando tiempo a que llegase el duque de Sessa con sus tropas, que habían de asistirle en su proyecto de reprimir la insurrección, y de conciliar a los dos marqueses en litigio.

En esos días se levantaron las villas de Güejar, Dúdar y Quéntar. Al objeto de truncar su progreso, Juan de Austria ordenó que los moriscos de Pinos Genil y Monachil abandonaran su residencia y se trasladaran a la vega.

Las tropas castellanas que ya estaban guarnecidas en La Alpujarra, al conocer la pronta llegada de los temibles Tercios de Flandes arreciaron sus excesos, pues sabían que en cuanto llegaran deberían someterse a disciplina.

A partir de mayo, tres ejércitos al servicio del monarca Felipe II se encontraron en las abruptas sierras de La Alpujarra. El ejército más poderoso del mundo se acababa de concentrar allí para ahogar la rebelión de una horda de civiles —agricultores, artesanos, comerciantes…— mal armados y ajenos al oficio militar.

Y por si eran pocos los represores de la asonada, el 11 de junio desembarcaron en Torrox los Tercios de Nápoles, al mando del insigne comendador Juan de Requesens, para recuperar Frigiliana, Cómpeta y las otras comarcas malagueñas.

A la vista de lo que se les venía encima, Ibn Umayya trató de reorganizar a los suyos en comandos mejor estructurados. A Ibn Abbu encomendó las tahas de Poqueira y Ferreira; a El-Maleh el Marquesado del Zenete, las comarcas de Guadix, Baza y río Almanzora; a Mohammed al-Xaba la taha de Órgiva; a Ibn Mekenun las de Lúchar, sierra de Filabres y sierra de Gádor; a Abdellah el-Rendatí y a Girón de Archidona el valle de Lecrín y las costas de Motril y Almuñécar; y a otros arráeces el resto de zonas. Nombró consejeros a su tío Ibn Sagüar, a Al-Habaqui y a Mocarraf. A Ibn Farax lo relegó al ostracismo, pues no se fiaba ya de él, lo que acrecentó más aún el inquina que tenía al emir.

Ibn Umayya hacía incursiones rápidas, y se volvía a Laujar donde éste tenía su palacete. En julio falleció Ibn Sagüar que sucumbió a unas fiebres que le sobrevinieron en Mecina. La muerte de su tío y mejor aliado conmocionó a Ibn Umayya, que no pasaba por su mejor momento. Acababa de sufrir una cruenta derrota en Berja ante las huestes del marqués de Mondéjar, contando numerosas bajas entre sus hombres, tras la que se replegó a Cádiar y Válor para tratar de animar a los suyos, ya bastante cansados de tanta escaramuza, pues en realidad no eran gentes de guerra.

Empezaban a escucharse voces que tildaban al emir Ibn Umayya de déspota, y algunos cuestionaban maliciosamente su capacidad de liderazgo. Para colmo, su padre don Antonio de Válor y su hermano Francisco fueron prendidos por la Inquisición, como moneda de cambio y elemento de presión.

En septiembre, Ibn Umayya se retiró a Purchena con sus tropas. Allí organizó los Juegos Moriscos, una serie de pruebas deportivas, como levantamiento de pesos, tiro con honda y con arco, carreras de velocidad, etc., así como concursos de canto y danza, que servían de entretenimiento y ejercitación para la tropa. Los Juegos Moriscos, de clara ascendencia olímpica, fueron reconocidos por Juan Antonio Samaranch, presidente del Comité Olímpico Internacional durante tantos años, quien declaró: “Los Juegos Moriscos de Aben Humeya suponen rehacer el eslabón perdido de la cadena entre la Antigüedad y el mundo moderno.”

Mientras tanto, Ibn Farax se dedicaba a sembrar la disensión entre los alpujarreños, intentando convencerlos de que Ibn Umayya se comportaba de forma despótica, además de tacharlo de lujurioso. Éste acababa de enviar una carta a Juan de Austria, al Inquisidor de Granada Andrés de Álava, con quien tenía estrecha amistad, y al presidente de la Audiencia Pedro de Deza, intercediendo por su padre y hermano presos y torturados por el Tribunal de la Inquisición. En la misiva les proponía canjearlos por ochenta cautivos castellanos en su poder. Ibn Farax hizo correr la noticia de que el emir sólo se ocupaba de sus asuntos personales, dejando en segundo plano sus obligaciones como líder de los insurrectos.

Todo esto, mezclado al parecer con un asunto de amoríos, llevó a Mohammed Ibn Umayya a la tumba. Corrió el rumor de que éste andaba perdidamente enamorado de una joven viuda de Laujar. Al amor de esta mujer de gran belleza aspiraba también otro morisco llamado Diego Alguacil. Envenenados por los celos, se conchabó un pequeño grupo de moriscos disidentes, entre los que estaban Ibn Farax, Alguacil y Diego de Arcos, le prepararon una encerrona en su propia casa y le estrangularon con un cordel. Tras una agonía que duró varias horas, el rey de los moriscos fallecía el 20 de octubre de 1569, con 49 años.

Hubo quien dijera que este grupo de traidores había sido sobornado por las autoridades castellanas para descabezar la revuelta. Es bastante probable que así fuera, y que éste fuera un acto más del programa de guerra sucia que los castellanos llevaron a cabo, en paralelo al ámbito militar, en la represión de los sublevados. Pero me temo que esto nunca se sabrá a ciencia cierta. Entre otras estratagemas, Juan de Austria había ofrecido una cuantiosa recompensa para quien traicionara a su emir.

A Mohammed Ibn Umayya le sucedió su primo Abdellah Ibn Abbu —de nombre cristiano Diego López—, excelente arráez nacido en Mecina Bombarón, pero a partir de aquí el conflicto iba a tomar un nuevo rumbo.

Juan de Austria, con el ejército principal, tomó Galera y Serón, en la zona oriental. De nuevo se manifiestaron serias desavenencias entre el marqués de Los Vélez, guarnecido con su tropa en la misma zona, y el propio Juan de Austria. Éste le reprochaba al Marqués que no atendía sus instrucciones, lo que perjudicaba su avance, y el de Los Vélez se quejaba de que el príncipe don Juan tenía mal avituallada y desprotegida a su tropa. El ejército del duque de Sessa avanzaba desde el valle de Lecrín hacia las tahas de Poqueira y Ferreira, y el de Antonio de Luna salía de Antequera para cubrir la sierra de Bentomiz, la serranía de Ronda y el resto de comarcas malagueñas levantadas. El colosal ejército católico-castellano proseguía su avance desde tres flancos diferentes. La cosa no pintaba bien para los cansados moriscos.

El marqués de Mondéjar fue llamado a la Corte, siendo apartado de la campaña y enviado como Virrey a Valencia. Poco después sería nombrado Virrey de Nápoles.

Ibn Abbu llegó a reunir cerca de 10.000 hombres, bastante desmoralizados y mal armados. Proseguían en táctica de guerrillas, pero cada vez tenían menos ímpetu.



Conocedor de la situación, Juan de Austria comenzó a emitir bandos entre la población conminándoles a entregar las armas y ofreciéndoles un sospechoso perdón. Continuó ofreciendo suculentas recompensas para quien traicionara a sus líderes. En Fondón de Andarax, numerosos moriscos de la facción de El-Habaqui abandonaron las armas en mayo de 1570. Ibn Abbu ordenó ejecutar por traidor a su arráez El-Habaqui, quien solía hacer de enlace entre los moriscos y los castellanos, y recaía sobre él la sospecha de usar doble juego.

Aún sin concluir la contienda bélica, las autoridades castellanas comenzaron a diseñar un amplio programa para deportar a todos los moriscos de las zonas levantadas hacia otros puntos de Castilla.

Los escasos moriscos todavía en lucha fueron desplazándose hacia sierra Bermeja y la serranía de Ronda, donde se produjeron las últimas escaramuzas. En julio, los rebeldes saquearon Alozaina. En Septiembre fueron desalojados de la zona por las tropas del duque de Arcos. No obstante, Ibn Abbu y un pequeño grupo de fieles lograron escapar y regresar a La Alpujarra, resistiendo allí hasta principios de 1571.

Los Valoríes, el clan de Ibn Umayya, no habían olvidado la traición de Ibn Abbu. Embriagados por el espíritu de venganza, enviaron a Bérchules a El-Zatahari y El-Zenix, quienes lo asesinaron el 13 de marzo de 1571. En connivencia con los castellanos, rellenaron el cadáver con sal, lo entablaron sobre un caballo y lo llevaron a Granada, donde fue expuesto al público como escarmiento.

Una vez “pacificada” la zona, se completó la deportación masiva que afectó a todos los moriscos por definición, hubieran o no participado en las revueltas. Pero este desplazamiento no lo podían realizar por su cuenta, sino sujetos al programa diseñado por las autoridades. Los de Granada ciudad, su vega, valle de Lecrín, sierra de Bentomiz, sierra Bermeja, serranía de Ronda y Axarquía fueron enviados a Córdoba, y desde allí redistribuidos por Galicia y Extremadura. Los de Guadix, Baza, Huéscar, comarca del río Almanzora y sus alquerías, a Castilla La Vieja y La Mancha. Y los de Almería y comarca de Tabernas, a Sevilla.

Esta deportación masiva hacia las tierras interiores de la península fue el preludio del destierro general de los moriscos peninsulares, decretado por Felipe III en 1609. Pero esta vez sería ya el plan definitivo, y la expulsión se realizaría hacia fuera de los territorios peninsulares.

Con estos sucesos se puede decir que concluyó esta aventura, en la que perdieron la vida miles de hombres, ancianos, mujeres y niños, y otros tantos fueron apresados y vendidos como esclavos. Necio sería esperar otro desenlace habida cuenta de la enorme desproporción de fuerzas, lo que no es óbice para comprender las descabelladas empresas que es capaz de abordar una población, desesperada por el hostigamiento estatal contra su identidad como grupo social, y viendo pisoteados sus más elementales derechos civiles.

Algunos historiadores se han referido a estos hechos como Guerra de La Alpujarra, lo que a mi juicio resulta artificioso, pues por guerra se entiende un conflicto armado entre dos o más ejércitos estatales. Y este no fue el caso ni mucho menos. El descomunal contingente empleado para el aplastamiento de esta sublevación popular da cuenta del empeño de la monarquía española por exterminar la huella del Islam de sus territorios.

Una vez más, la compasión brilló por su ausencia.

http://genocidiomorisco.blogspot.com/2009/09/la-rebelion-de-la-alpujarra.html

Musulmanes en la Península [Ibérica] antes del 711



Fonte: Identidad andaluza
http://identidadandaluza.wordpress.com/2009/08/04/musulmanes-en-la-peninsula-antes-del-711/

Ali Manzano/Identidad Andaluza

Algunas veces, cuando creemos que todo lo sabemos, cuando pensamos que la historia que hemos escrito está basada en estudios y bases científicas irrefutables, cuando despreciamos las tesis y teorías de los que violentan la historia que hemos montado para justificar nuestros prejuicios e intereses … suceden hechos reveladores que iluminan nuestra gris existencia, para darnos a conocer indicios de otra realidad, que nos llevará a revisar nuestra historia, nuestras verdades absolutas, nuestros dogmas y nuestros prejuicios para abrirnos al conocimiento de una realidad que no está basada en los intereses políticos de ninguna oligarquía y que no tiene que recurir a dogmas ni leyendas para justificar sus argumentos.

Uno de esos “hechos reveladores” apareció en las excavaciones arqueológicas de la localidad valenciana de Xativa. Me estoy refiriendo al descubrimiento arqueológico de la Bola de Xativa en junio del 2004. En las excavaciones aparecieron piezas de época romana del siglo I, junto a 170 fosas de periodo islámico y una lápida mortuoria, en perfecto estado de conservación, de mármol, de 70 cm. de anchura por 40 de altura y 15 de grosor, con un peso aproximado de 60 kg. Y con inscripciones en árabe, referentes al nombre del fallecido, año de la muerte, y ayas del Corán, en un estilo caligráfico cúfico con la siguiente leyenda:

Bismi Alláhi Alrah-máni alrah-imi ya ayuhá alnasa inna wa’da
Allahi ha’aqqun fala taguffannakum alh-ayati aldunya wa la yaguffa
nnakum biLlahi algurur hada qabru Ah’mad bni Fihr? Nahr?
i rah’imahu A/láhu kana yashadu anna lá illaha i/la
Allah wah’dahu la sharika lahu wa anna Muh’ammadan ‘abduhu
wa rasuluhu arsa/ahu bilhuda wa dinni alhaqqi liyunz’hirahu
ala aldini kulliha wa law kariha almusrikuna yawn
wa’isruna mina aljumadá alülá mina alsannati saba’a ,va’isruna


Traducción:

En el Nombre de Allah, el Todoclemente, el Todomisericordioso, “0h hombres¡ Ciertamente la promesa de Allah es verdad. ¡Que no os engañe la vida mundana y que no os engañe [a vosotros] el engañador respecto a Allah” (Coran 31 :33). Esta es la tumba de Ah’mad bn Fihr? Nahr?, ¡Que Allah tenga misericordia de él. Daba testimonio de que no hay ídolos sino Allah, Único y sin socios, y que Muhammad es su siervo y mensajero. “La envió con la guía y el Din de la Verdad para hacerla resplandecer sobre todas las religiones, aunque repugne a los asociadores” (Coran 9:33/ 48:28). Un día y 20 [= 21] de jumada-l-ula del año 27 [de la hégira: 21 de febrero de 648].

De la lápida y de su texto podemos resaltar los siguientes datos:

1.- El texto está esculpido en un perfecto árabe.
2.- La grafia está esculpida en estilo cúfico.
3.- Las ayas coránicas son exactas.
4.- La fecha de defunción está datada en el año 648, correspondiente al año 27 de la héjira, dieciséis años Después del fallecimiento del profeta Muhammad.
5.- Tanto la piedra como la forma de esculpir la lápida es de época tardo-romana.
6.- Ha sido encontrada en el levante peninsular.

Por todo lo expuesto anteriormente, podemos deducir que la persona que hizo la lápida era un artesano local, gran conocedor del idioma árabe y del Corán. Pero la fecha de fallecimiento data del año 648, tan solo dieciséis años después del fallecimiento del profeta Muhammad (s.a.s.), lo que nos lleva a pensar, que varios años antes de esta fecha, habrían llegado al levante peninsular algunos musulmanes contemporáneos del profeta predicando el nuevo Din y creando pequeñas comunidades islámicas en las que se enseñó el idioma árabe y el Corán a los nativos del lugar. Por las características de la lápida, parece ser que el fallecido era una persona de gran relevancia, posiblemente el maestro de esa pequeña comunidad islámica llegado años antes procedente de la península arabiga.

Lo que con este descubrimiento se nos revela como incontestable, la presencia de comunidades islámicas en el levante peninsular con anterioridad al año 711, ya lo intuyó, demostrando una inconmesurable capacidad de análisis, el historiador Ignacio Olague en su obra “La revolución islámica en Occidente”:

“Sabemos por la evolución de ideas de las que tenemos información cierta, que el sincretismo arriano evolucionaba hacia el sincretismo musulmán. Aun ante el hecho de una gravísima dificultad, como la ausencia de documentación en el slglo VIII, correcta sería la deducción, pues tenemos dos puntos situados en la misma curva de evolución y sabemos sin duda alguna que desciende el Islam, genéticamente hablando, del cristianismo unitario. Por consiguiente, se debe suponer que la penetración de los principios coránicos se realizaba desde hacia tiempo; pero no en todas las regiones peninsulares, pues las favorecidas por la geografía serian privilegiadas. Tampoco es temerario suponer que los primeros contactos se realizarían a orillas del Mediterráneo antes del mismo siglo VIII. Pues la expansión del Islam no se impuso por obra de ejércitos extranjeros, sino por la acción de ideas-fuerza. Se ha deslizado y luego ha prosperado en virtud de la misma dinámica que rigió y rige hoy día la propagación de movimientos similares. En un medio favorable, se difundió la idea por actos anónimos y muchas veces oscuros. Nada sabemos acerca de la propagación del cristianismo en la Península Ibérica durante los primeros siglos. Surge de pronto en el IV, como por obra de una explosión. Ocurrió lo mismo con la difusión del Islam. Ante la ausencia de textos latinos y árabes, en siglo y medio, lo menos que se puede enunciar es que ha sido predicado en un ambiente propicio por oscuros propagandistas; por lo cual no han dejado de esta acción rastro alguno. Por otra parte nos consta, por la observación de fenómenos análogos ocurridos en el curso de la historia, que se disimula este proselitismo anónimo a los ojos de los contemporáneos bajo la cubierta de una densa confusión. Aun hoy día, en que la instrucción y la facilidad de las comunicaciones – y por consiguiente el intercambio de ideas- han predispuesto el espíritu de las gente a una mayor agilidad., se requirió un cierto tiempo para que aprendiera el público a distinguir en la acción socia los adheridos a las diversas teorías. Hemos conocido en nuestra juventud a personas selectas por su instrucción y por sus cargos que confundían a los anarquistas con los parlidarios de la II o de la III Internacional. ¿ Qué seria en el siglo IX, en que las gentes, hasta las más cultas, disponían de escasos medios informativos? Se requería una linterna muy bien encendida y un ojo avizor excelente para discernir en aquellos tiempos a un arriano de un premusulman y de un auténtico creyente. Tanto más que en muchos años compondrían éstos una pequeña minoría”.

A pesar de la contundencia de las pruebas, los “sabios de la patria española”, se empeñan en tropezar una y otra vez con la misma piedra, en mantener sus dogmas y sus prejuicios en contra de la razón, de la lógica y de la evidencia. El método de análisis histórico empleado por algunos arqueólogos y arabistas raya la locura, insultando la inteligencia de cualquier persona interesada en el esclarecimiento de los hechos históricos acaecidos en la Península Ibérica. Primero, confeccionamos los dogmas de fe históricos (invasión de árabes, reconquista, expulsión de los moriscos y repoblación con castellanos y gallegos) necesarios para justificar hechos acaecidos con posterioridad: unidad política y religiosa de España, genocidio físico y cultural del pueblo andaluz (morisco), encubierto bajo la palabra “reconquista” y los numerosos decretos de expulsión. Una vez establecidos los dogmas, intentamos encajar los hechos para que estos no contradigan los dogmas preestablecidos.

Pero algunos hechos tienen un difícil encaje en la historia dogmática oficial, como por ejemplo la lápida de la que estamos informando en esta web, datada en el año 648. ¿Cómo puede ser del año 648 si los árabes no invadieron “España” hasta el año 711? En vez de replantear la historia ante la aparición de nuevas pruebas, los “científicos oficiales” – muy bien pagados por el Estado – nos ofrecen un juego de prestidigitación. Como los árabes no invadieron “España” hasta el año 711, la lápida no puede ser del año 648. El artesano que esculpió la lápida “se equivocó” de fecha, poniendo la de 648 en vez de la de 1038, fecha dada por los arqueólogos de forma caprichosa y sin justificación alguna. Si en la lápida la fecha de fallecimiento, en un perfecto árabe está datada en el año 648, ¿en que se basan los arqueólogos para decirnos que corresponde al año 1.038? ¿imaginación, desinformación, incompetencia, miedo a la verdad? ¿Cómo le llamaríais vosotros? El que acierte mi calificativo tiene premio: un viaje a algunas universidades “españolas” para conocer a esa raza de “científicos en extinción” que investigan al dictado de la administración que les paga, con el objetivo de mantener los “dogmas oficiales”. Cuando la libertad de investigación y de pensamiento llegue a las universidades del Estado español, la HISTORIA se podrá empezar a escribir con letras mayúsculas.


Comentario

[...]

Rahl
4 Agosto, 2009 a las 1:08 pm

Assalâmu ‘alaykum, conozco el proceso de traducción de la lápida de Xàtiva, porque en aquella época estaba en contacto con un hermano de Xàtiva que participó en las excavaciones. Participé en el desciframiento, junto con otros hermanos, y no quise publicarlo en internet porque preferí esperar lo que decían los especialistas. Un hermano, con el cual he perdido el contacto, insistió en pedirme la imagen de la lápida y la traducción, e ingenuamente se la proporcioné. A partir de entonces ha circulado por la red, e incluso ha aparecido en publicaciones (Cronología de Al-Andalus, ed. Miraguano), a bombo y platillo y sin más referencias. Es más, en todas las reproducciones que he visto por internet, aparece una vacilación mía en la transcripción de unas letras [Fihr? Nahr?] donde se escribe el nombre de la persona enterrada. Quiero decir con eso que conozco perfectamente el origen de esa transcripción. Soy prudente y quiero serlo, porque no me considero un especialista en la materia. De hecho, Carmen Barceló, catedrática d’Estudios Árabes de la Universidad de Valencia, y especialista en estas cuestiones, considera que la lápida, por el estilo de la letra, es muy posterior (s. XI?). Además se sabe por otras inscripciones árabes andalusíes que, a veces, no se hacía constar la fecha completa, sino sólo el final, sin las centenas referidas al año de la hégira. En ocasiones, porque no cabía en el espacio de la lápida, o por otras razones que yo no sabría explicar. El caso es que, ante la duda, me mantengo en ella. Confío en el trabajo y en la experiencia de la doctora Carmen Barceló, y a sus opiniones me atengo. Es una lástima que se tergiverse y se utilize el trabajo de investigación con fines ajenos a ella. Por ejemplo, para defender el olagüismo, una tesis muy del gusto de algunos sectores, pero muy discutida y discutible.

Wa-s-salâm!

***

El Joraique
4 Agosto, 2009 a las 1:49 pm

Me parece que la cosa es todo lo contrario de lo que dice Rahl. No se tergiversan las cosas para favorecer al “olaguismo”. Se niegan las evidencias para no dar la razón a eso que llaman el “olaguismo”, investigaciones de Ignacio Olague donde demuestra la falsa de la invasión de árabes en la península ibérica. Los prejuicios sobre este tema y los posicionamientos de los “expertos” en torno a la historia oficial de España, hace que este tema de la lápida sea extremadamente molesto e intenten ocultarlo a la opinión pública. La cobardia y los prejuicios ideológicos, así como la defensa de los privilegios de catedráticos y otros (la aceptación de las tesis de Olague supondrian el ostracismo para cualquier “experto”) hacen que defiendan lo indefendible y que busquen justificaciones para no deslegitimar los dogmas oficiales, aunque estas sean tan pueriles como las que han dado en este tema.

***

Rahl
4 Agosto, 2009 a las 2:24 pm

A parte prejuicios, ostracismos y privilegios de aquí y de allá, es muy difícil de justificar con argumentos históricos (por lo menos, en el estado actual de las investigaciones) si la lápida de Xàtiva es o no anterior al 711. Yo, ingenuamente, pensé que lo era. Ahora que conozco más sobre estas cosas, considero que no lo es. Aunque hubiera habido musulmanes en la península antes del 711 (que pudieron haber entrado por el puerto de Cartagena o por el puerto de Denia o Algeciras), no creo que en aquella época tuviesen tanta presencia social como para dejar constancia en una lápida inscrita con el nombre del fallecido. Las lápidas de los primeros tiempos del islam solían ser anónimas, y cuando se inscribía el nombre de alguien se hacía para dejar constancia de su influencia y su posición social o espiritual. Alguien sugirió en el momento sorpresivo del descubrimiento (junio de 2004) que podía pertenecer a alguien relacionado con el Profeta (sawas): uno de sus compañeros, un seguidor de los compañeros (tabi’î)? Grandísima y sugerente sorpresa. No lo creo probable. Los musulmanes que abrieron (conquistaron) el norte de África y la península de Al-Ándalus para el islam, sólo podían ser seguidores de los compañeros del Profeta (sawas) o seguidores de los seguidores. Algunos de ellos aparecen en las crónicas antiguas, y se nombran en los capítulos que el historiador Al-Maqqarî dedica a los primeros tiempos de Al-Ándalus. Para labrar una lápida como la de Xàtiva se necesita todo un entramaje social musulmán constituído (gente que sepa leer y escribir en árabe, gente que conozca el Corán, enterramientos islámicos, imames, alfaquíes…), cosa que no creo que se diera en el siglo VII bajo dominio visigótico y en un estado de crisis acusado. Quizá en la zona bizantina (sudeste peninsular), las cosas eran de otra manera. Sólo Dios sabe.

***

Simbad
4 Agosto, 2009 a las 4:57 pm

Assalam aleikum
Con la lógica por delante, que se defiendan las tesis olagüistas es una cosa, y que se defiendan probables inexactitudes históricas es otra. Teniendo en cuenta que el año de la Hégira es el 622 de la era cristiana, y que esta lápida está fechada en el 648, pocos años me parecen para que haya un entramado musulmán tan fuerte en el Levante español, expresado en un perfecto árabe. El “poseedor” de esa lápida tendría que haber vivido, pongamos no menos de cinco o diez años en el área donde fue enterrado, ésto es, en torno al 640 de la Hégira. Tendría que haber sido contemporáneo del Profeta sws, y en vez de permanecer en territorio árabe, cimentando el Islam allí, por obra y gracia del “Destino” emigró a la Península Ibérica y fundó una comunidad musulmana bastante fuerte, versada en el árabe clásico y en el Corán… y todo en 18 años…. demasiado poco tiempo.

Que nuestras ansias de ver echadas por tierras las tesis “oficiales y oficialistas” de la Historia hispana no nos hagan caer en la “tontería supina”.

Demos a Dios lo que es de Dios, y al César lo que es del César.

Lo que “é”, “é”.

O no “é”?.

***

Alarif
4 Agosto, 2009 a las 5:47 pm

A ver, qué fecha pone la lapida. Esa es la unica realidad. Lo demas son divagaciones y elucubraciones en funcion de los intereses de cada cual. Que el escultor se equivocó o que en algunas lapidas no se ponian las centenas -y en otras por lo visto sí- no es un argumento muy cientifico. Por el estrato en el que se encontro la lapida, inmediatamente posterior a restos romanos, perfectamente podria corresponder a la fecha inscrita.
:)

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4 Agosto, 2009 a las 8:51 pm

Salam malekum. Hablo desde la ignorancia pero, no hace falta un pequeño esfuerzo y tiempo para esculpir una lápida? En mi opinión, creo que equivocarse en varias cifras es difícil dado el trabajo. En cualquier caso, deberíamos ser razonables y prudentes, que es arqueología y no matemáticas.

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Rahl
4 Agosto, 2009 a las 9:05 pm

Eso de que la fecha de la lápida es la única realidad es de un simplismo tal que ni un principiante lo aceptaría. Carmen Barceló es especialista en epigrafía árabe, con publicaciones sobre el tema, y sabe muy bien de qué está hablando. Además resulta contradictorio defender las teoría de Olagüe y la antigüedad de la lápida. Según Olagüe no hubo árabes en la islamización de Hispania. Entonces ¿de dónde salieron los que hablaron y escribieron árabe en siglos anteriores o posteriores al 711? ¿De la nada de las nadas? ¿Del desierto de los desiertos? ¿Entonces quién escribió en árabe esa lápida de Xàtiva? ¿Algún iberoromano con don de lenguas? Por otra parte, la arabización e islamización del oriente de Al-Ándalus fue lenta y tardía, debido a su posición marginal respecto a los centros de poder (Toledo y Córdoba). ¿Qué hace esa lápida en el Xarq Al-Andalus, en madîna Xàtiba, en una época ‘preislámica’ para Hispania? ¿Era ya musulmana en el 648? Lo dudo con una duda inmensa. Por otra parte habría que rebajar esa fuerte desconfianza de algunos andalucistas de ahora respecto a la labor investigadora de nuestros arabistas e islamólogos. A ellos, por la cuenta que les trae, no les vale la pena mentir. Yo confío en ellos, en sus trabajos (a menudo mal reconocidos) y en sus investigaciones. Dejémosles trabajar en paz y que sea lo que haya de ser. Siempre habrá algunos de ellos (Serafín Fanjul, por ejemplo) que vive de explicar la cultura andalusí y al mismo tiempo aprovecha para denigrarla. Pero la mayoría son gente honrada, respetabilísima, cabal y digna con la labor que hacen (Federico Corriente, Carmen Barceló, Dolors Bramon, Pedro Martínez Montávez, y un larguísimo etcétera, herederos de la tradición investigadora de Asín Palacios, Ribera, García Gómez, Míkel de Epalza y otro larguísimo etcétera). A cada uno, lo suyo.

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Wa-s-salâm!
Rahl
4 Agosto, 2009 a las 11:58 pm

Y para terminar, ¿no se dan cuenta los defensores de Olagüe que aceptando la hipotética antigüedad de la lápida de Xàtiva están negando precisamente las teorías del señor Olagüe? Y me despido, porque el verano es largo y aún quedan muchas cosas por hacer. Sólo una cosa: por el respeto a la gente del conocimiento, por el respeto al islam y a la historia de Al-Ándalus (que no és sólo Andalucía), dejemos de decir y de publicar perogrulladas.

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Rahl
5 Agosto, 2009 a las 2:07 am

Una última aportación. Aquí tenéis el enlace a la página de la red donde se puede consultar la versión original de la transliteración y transcripción de la lápida de Xàtiva, de la que me hago responsable.

He visto que en la versión del artículo que ha dado lugar a estos comentarios hay errores tipográficos que no coinciden con la versión original de la transcripción. La versión de la fecha es según la información elaborada en aquel momento.

http://salvadorjafer.net/xarqand/historia/xativa04.htm

Para ver el texto en árabe hay que descargar las fuentes de ParsNegar desde el enlace que se proporciona en la misma página. Algún dia lo pasaré a Unicode, si Dios quiere.

Mil zalemas.

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zalim hicham
20 Agosto, 2009 a las 1:57 pm

salam alaikom
la version arabiga del articulo, traducido por Zalim Hicham.
http://hicham84andalous.maktoobblog.com/1567236/%D9%85%D8%B3%D9%84%D9%85%D9%88%D9%86-%D9%81%D9%8A-%D8%A7%D9%84%D8%A3%D9%86%D8%AF%D9%84%D8%B3-%D9%82%D8%A8%D9%84-%D8%B7%D8%B1%D9%8A%D9%81-%D9%88-%D8%B7%D8%A7%D8%B1%D9%82/

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Muza
26 Agosto, 2009 a las 10:49 pm

Bueno, también han aparecido numerosas piezas traídas por mercaderes como recuerdo o curiosidad de otras tierras y culturas. Esta lápida no tuvo por qué labrarse aquí y pudo ser importada.

***

Musulmanes en la península desde 647 de J.C.
"Creo que el hecho de la existencia de los musulmanes antes 711 y precisamente en el año 648 de J.C en la península ibérica es más que cierto"
Andalusíes - 23/10/2009 9:50 - Autor: Hicham Zalim - Fuente: Envío público

Fonte: http://www.webislam.com/?idt=14176

En relación al artículo "Musulmanes en la península antes del 711" del musulmán andaluz Ali Monzano quisiera añadir un testimonio histórico referente a la presencia musulmana en el año 27 de la hégira (648 de J.C) y participar en el esclarecimiento del ‘’enigma’’ escrito sobre la lápida de “La Bola de Xátiva” donde leemos:

Bismi Alláhi Alrah-máni alrah-imi ya ayuhá alnasa inna wa’da
Allahi ha’aqqun fala taguffannakum alh-ayati aldunya wa la yaguffa
nnakum biLlahi algurur hada qabru Ah’mad bni Fihr? Nahr?
i rah’imahu A/láhu kana yashadu anna lá illaha i/la
Allah wah’dahu la sharika lahu wa anna Muh’ammadan ‘abduhu
wa rasuluhu arsa/ahu bilhuda wa dinni alhaqqi liyunz’hirahu
ala aldini kulliha wa law kariha almusrikuna yawn
wa’isruna mina aljumadá alülá mina alsannati saba’a ,va’isruna

Traducción:

En el Nombre de Allah, el Todoclemente, el Todomisericordioso, “¡0h hombres¡ Ciertamente la promesa de Allah es verdad. ¡Que no os engañe la vida mundana y que no os engañe [a vosotros] el engañador respecto a Allah” (Coran 31 :33). ¿Esta es la tumba de Ah’mad bn Fihr? Nahr? ¡Que Allah tenga misericordia de él. Daba testimonio de que no hay ídolos sino Allah, Único y sin socios, y que Muhammad es su siervo y mensajero. “La envió con la guía y el Din de la Verdad para hacerla resplandecer sobre todas las religiones, aunque repugne a los asociadores” (Coran 9:33/ 48:28). Un día y 20 [= 21] de jumada-l-ula del año 27 [de la hégira: 21 de febrero de 648].

Deducimos de la lápida y de su texto los siguientes datos:

- La fecha de defunción del hombre musulmán está datada en el año 648, correspondiente al año 27 de la héjira, dieciséis años después del fallecimiento del profeta Muhammad.
- El nombre del difunto es Ah’mad bn Fihr(Nahr).

Según estos dos puntos, podemos deducir que había musulmanes en la península ibérica mucho antes el año 711 fecha de la pretendida invasión musulmana, a pesar de todas las reservas formuladas -para fechar dicha presencia- por gente que no quiere creer en otra versión histórica del siglo VII y VIII , más lógica y más plausible.

Podemos leer en el libro de ‘’Historia de Al-Andalus’’ del historiador marroquí Ibn Idari Al-Marrakusi (fallecido en el año 1295 de J.C -695 de la hégira) referente a la llegada de los primeros musulmanes a Al-Andalus :

(DE LA ENTRADA DE LOS MUSLIMES EN AL-ANDALUS, y de como fue sacada del poder de los infieles.)

Y en cuanto a la entrada de los musulmanes en Al-Andalus refiérense sobre ella cuatro especies.
Es la primera, que la tierra de Al-Andalus la entraron dos Al fihries (los AL- Fihr), Abdu-l-lah Ben Nafi Ben Abdi-l-queis y Abdu-l-lah ben Al Husayn, llegando a ella por el lado de la costa en tiempo de Otsman (Dios le tenga en su gracia). Dice At-Taberi que venieron a ella aficionados a su tierra y mar, y que la conquistaron por el permiso de Dios (Enaltecido sea su nombre), así como la tierra de Afrancha, que fue agregada con Al-Andalus al dominio de los musulmanes a semejanza de Ifriquia , sin que cesara por esto de permanecer el amirato de Al Andalus en Ifriquia, hasta que vino la época de Hixem ben Abdi-l-malic e impidieron los bereberes las comunicaciones, quedando los habitantes de Al-Andalus por su estado en condición superior a la de ellos: habiendo tenido lugar esta entrada en el año 27 de la noble hégira (647 de J.C). ). P. 13-14. (traducido por Francisco Fernández González).

Si confrontamos este importantísimo testimonio con las noticias figurantes sobre la lápida, encontramos dos denominadores comunes:

- El año 27 de la hegira (647-648 de J.C).
- El nombre de la familia Koraichit los Al-Fihr.

Ahora, creo que el hecho de la existencia de los musulmanes antes 711 y precisamente en el año 648 de J.C en la península ibérica es más que cierto, ya es una realidad; también es cierto que esta noticia molestó (molesta y molestará) mucho a los historiadores españoles de la época porque no justifica la derrota de los cristianos trinitarios frente a los andaluces unitarios (aliados con los musulmanes y unitarios marroquíes) en 711, por eso las obras españolas no mencionan nada de esta llegada ‘’temprana’’; mientras que los historiadores musulmanes no le han dado mucha importancia y han preferido continuar creyendo que Tarif y Taric fueron los primeros musulmanes que entraron en la península.