Fonte: Facebook
Tra Olimpiadi e mondiali il Brasile di Luiz Inacio da Silva celebra i successi di una politica progressista. Sorpresa la sinistra italiana, che ha spesso snobbato il presidente-operaio. E quella volta alla Festa dell'Unità...
In un'Italia dove è stato salutato come una conquista l'essersi aggiudicati la casereccia Expò di Milano nel 2015, una vittoria padana che ha il sapore del «vorrei ma non posso», ha sorpreso più che altrove la notizia che il Brasile, la nazione del Carnevale, dei calciatori costretti ad emigrare in occidente, dei bambini di strada e di un presidente ex tornitore della Volkswagen, si sia aggiudicata l'organizzazione dei mondiali di calcio nel 2014 e delle Olimpiadi nel 2016, battendo la candidatura della Chicago di Obama.
Questo annuncio ha fatto sensazione anche in parte di quella che fu la sinistra italiana, dimentica, evidentemente, che il Brasile è anche la patria, fra tanti, di Jorge Amado, di Oscar Niemeyer, architetto ormai centenario ma ancora lucido e creativo, e di poeti del samba e dell'impegno civile come sono stati Vinicius de Moraes, Tom Jobim o sono ancora Chico Buarque, Caetano Veloso e Gilberto Gil. A questa sinistra smemorata è sfuggito anche che il Brasile è il paese più grande e solido di un continente che, dai Forum di Porto Alegre in poi, sta guidando insieme al Venezuela di Chavez un'orgogliosa rinascita sociale, puntando sulla riappropriazione delle risorse nazionali ma anche su diritti civili e umani attualmente in discussione invece nella vecchia Europa. Certo, lo scenario è sempre quello del capitalismo, ma cercando di imporre dei limiti alla finanza predatrice, a quell'ideologia neoliberale che in certi momenti, in occidente, è diventata una fede.
In Brasile l'artefice di questo cambiamento è da sette anni Lula Ignacio da Silva, settimo di otto figli di una donna abbandonata dal marito che lasciò Bahia per San Paolo, dove c'era più lavoro. Una storia che dice come in America latina oggi è possibile restituire diritti negati fino a ieri a una umanità negletta. Eppure questo presidente proletario, sconfitto tre volte prima di farcela per due mandati di seguito, era visto quasi con sarcasmo da quella sinistra presuntuosa e riformista che, nel nostro paese, non ha mai riformato niente.
Nel 2000, ad una festa dell'Unità di Modena, dove Lula era venuto con il teologo della liberazione Frei Betto e con lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano ad accompagnare il Nobel per la pace Rigoberta Menchù per il lancio in Italia del libro sul genocidio dei maya in Guatemala negli anni '80, nessuno del vertice dei Democratici di Sinistra venne a salutarlo. La festa si era divisa esattamente in due parti: millecinquecento persone per la denuncia del penultimo genocidio del secolo (l'ultimo è stato in Ruanda), che inchiodava anche le responsabilità del governo degli Stati uniti, e millecinquecento per il faccia a faccia Vitali-Guazzaloca, dopo che quest'ultimo aveva costretto alla disfatta la sinistra a Bologna. I maggiorenti del partito avevano scelto questo spettacolo di puro autolesionismo, considerando Lula un perdente. Il ragazzo con piercing e orecchino che ci aveva accolto allo «spazio giovani» si era fatto in quattro per rimediare alla gaffe e ci aveva perfino offerto, a mezzanotte, una cena in uno dei ristoranti della festa.
Due mesi dopo, per la riunione a Firenze dei partiti socialdemocratici, organizzata dagli allora Democratici di sinistra, D'Alema aveva invitato Fernando Henrique Cardoso, ex sociologo della sinistra diventato il leader del centrodestra brasiliano (cioè anche dei latifondisti e delle loro guardie bianche che assassinavano sindacalisti, sem terra o gli estrattori di caucciù) ma non Lula, da quasi vent'anni leader di 50 milioni di brasiliani che votano progressista. Non fu una scelta lungimirante, come tante dei Ds prima di confluire nel Partito Democratico.
Se quello che rimane della sinistra italiana fosse capace di vincere la sua invincibile presunzione, dovrebbe riflettere sui due mandati presidenziali del brasiliano Lula che non hanno solo segnato per la prima volta l'affermazione in Brasile di un governo e di una politica di progresso, ma hanno portato anche la nazione delle favelas ad essere nuovamente una potenza continentale, riuscendo nello stesso tempo a raggiungere conquiste sociali e civili impensabili solo trent'anni fa, ai tempi della dittatura militare e del feroce Plan Condor. Aggiudicarsi l'organizzazione dei mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016, in un mondo che vive di eventi grazie ai quali si scommette sulla modernizzazione di un paese, è infatti segno di grande credibilità politica, economica e culturale.
Il Brasile dell'ex sindacalista Lula e il continente latinoamericano, con le sue conquiste sociali e democratiche di questi ultimi anni, sono un esempio di come si possa evitare di rimanere fino in fondo prigionieri della logica dell'economia neoliberale, delle politiche di aggiustamento strutturale e del debito estero care al Fondo monetario, alla Banca mondiale e all'egoismo di molte multinazionali.
Le scelte di Lula, condizionate spesso dai numeri che gli mancavano in parlamento o al senato o dall'arroganza di una confindustria poderosa e spesso giurassica, non sono sempre state coerenti, fino a rinviare per ora il suo sogno più importante: la riforma agraria. Ma aver varato con successo un piano come Fame zero, che ha assicurato la possibilità di alimentarsi tre volte al giorno a 60 milioni di cittadini, o aver finalmente rimesso in moto una giustizia che, per esempio, sulle repressioni dei terratenientes sulla pelle dei contadini nemmeno indagava, non sono meriti da poco. Così come aver avuto la lungimiranza di trovare una sintonia non facile con il Venezuela di Chavez, altro protagonista del riscatto latinoamericano che ha portato all'allargamento del Mercosur, alla nascita di realtà come il Banco del Sur, Telesur e a una solidale politica energetica comune, in favore delle nazioni più povere del continente. E lo stesso si può dire della politica di apertura verso l'Africa, dove Lula è andato una decina di volte stringendo accordi economici generosi per quei paesi.
Ma buona parte della nostra sinistra di tutto questo non si è accorta, mentre si decomponeva non ha rinunciato alla sua superbia, perdendo di vista perfino il fatto che il Brasile, nell'anno della crisi mondiale, ha sfiorato la recessione solo nel primo quadrimestre del 2009, uscendone nel terzo quadrimestre con la creazione di 250mila nuovi posti di lavoro, che diventeranno entro la fine dell'anno più di un milione. Inoltre grazie alla redistribuzione del reddito, 19 milioni di persone (il 10% dei cittadini) sono usciti dalla povertà e nel 2008 il reddito della classe medio-bassa è aumentato del 213%, mentre quello della classe media è salito del 45%.
Nel 2010 il Brasile che ha raggiunto l'autonomia energetica grazie alla scoperta di nuovi giacimenti di petrolio lungo le sue coste, avrà un più 5% di Pil e quando arriverà la stagione delle Olimpiadi sarà la quinta potenza economica del mondo.
Forse questo Lula a Firenze andava invitato. Forse la sua capacità di navigazione e di riscatto, in un continente che era il «cortile di casa» degli Usa, andava apprezzata.
Quando, qualche anno fa, l'Internazionale socialista si riunì a San Paolo del Brasile, in un continente reduce da tutti i soprusi dell'economia neoliberale, Fassino a nome dei nostri Ds chiese subito di poter fare un documento contro Cuba. Lula, presidente del paese ospitante, intervenne personalmente: «Non se ne parla nemmeno. Senza la resistenza di Cuba - disse - il riscatto attuale dell'America latina non sarebbe stato possibile». E alla fine del 2008, dopo alcune critiche mosse da Fidel per la sua scelta di intensificare l'estrazione dell'etanolo della canna come combustibile, fece tappa all'Avana con i ministri più rappresentativi del suo governo per andarne a parlare con Castro.
Lula evidentemente non è estremo come Chavez, ma come si governa con un'idea di sinistra lo sa perfettamente, pur non avendo studiato marxismo alla scuola di partito delle Frattocchie, ma essendosi formato secondo l'insegnamento del pedagogo cattolico Paulo Freire.
g.mina@giannimina.it
Tra Olimpiadi e mondiali il Brasile di Luiz Inacio da Silva celebra i successi di una politica progressista. Sorpresa la sinistra italiana, che ha spesso snobbato il presidente-operaio. E quella volta alla Festa dell'Unità...
In un'Italia dove è stato salutato come una conquista l'essersi aggiudicati la casereccia Expò di Milano nel 2015, una vittoria padana che ha il sapore del «vorrei ma non posso», ha sorpreso più che altrove la notizia che il Brasile, la nazione del Carnevale, dei calciatori costretti ad emigrare in occidente, dei bambini di strada e di un presidente ex tornitore della Volkswagen, si sia aggiudicata l'organizzazione dei mondiali di calcio nel 2014 e delle Olimpiadi nel 2016, battendo la candidatura della Chicago di Obama.
Questo annuncio ha fatto sensazione anche in parte di quella che fu la sinistra italiana, dimentica, evidentemente, che il Brasile è anche la patria, fra tanti, di Jorge Amado, di Oscar Niemeyer, architetto ormai centenario ma ancora lucido e creativo, e di poeti del samba e dell'impegno civile come sono stati Vinicius de Moraes, Tom Jobim o sono ancora Chico Buarque, Caetano Veloso e Gilberto Gil. A questa sinistra smemorata è sfuggito anche che il Brasile è il paese più grande e solido di un continente che, dai Forum di Porto Alegre in poi, sta guidando insieme al Venezuela di Chavez un'orgogliosa rinascita sociale, puntando sulla riappropriazione delle risorse nazionali ma anche su diritti civili e umani attualmente in discussione invece nella vecchia Europa. Certo, lo scenario è sempre quello del capitalismo, ma cercando di imporre dei limiti alla finanza predatrice, a quell'ideologia neoliberale che in certi momenti, in occidente, è diventata una fede.
In Brasile l'artefice di questo cambiamento è da sette anni Lula Ignacio da Silva, settimo di otto figli di una donna abbandonata dal marito che lasciò Bahia per San Paolo, dove c'era più lavoro. Una storia che dice come in America latina oggi è possibile restituire diritti negati fino a ieri a una umanità negletta. Eppure questo presidente proletario, sconfitto tre volte prima di farcela per due mandati di seguito, era visto quasi con sarcasmo da quella sinistra presuntuosa e riformista che, nel nostro paese, non ha mai riformato niente.
Nel 2000, ad una festa dell'Unità di Modena, dove Lula era venuto con il teologo della liberazione Frei Betto e con lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano ad accompagnare il Nobel per la pace Rigoberta Menchù per il lancio in Italia del libro sul genocidio dei maya in Guatemala negli anni '80, nessuno del vertice dei Democratici di Sinistra venne a salutarlo. La festa si era divisa esattamente in due parti: millecinquecento persone per la denuncia del penultimo genocidio del secolo (l'ultimo è stato in Ruanda), che inchiodava anche le responsabilità del governo degli Stati uniti, e millecinquecento per il faccia a faccia Vitali-Guazzaloca, dopo che quest'ultimo aveva costretto alla disfatta la sinistra a Bologna. I maggiorenti del partito avevano scelto questo spettacolo di puro autolesionismo, considerando Lula un perdente. Il ragazzo con piercing e orecchino che ci aveva accolto allo «spazio giovani» si era fatto in quattro per rimediare alla gaffe e ci aveva perfino offerto, a mezzanotte, una cena in uno dei ristoranti della festa.
Due mesi dopo, per la riunione a Firenze dei partiti socialdemocratici, organizzata dagli allora Democratici di sinistra, D'Alema aveva invitato Fernando Henrique Cardoso, ex sociologo della sinistra diventato il leader del centrodestra brasiliano (cioè anche dei latifondisti e delle loro guardie bianche che assassinavano sindacalisti, sem terra o gli estrattori di caucciù) ma non Lula, da quasi vent'anni leader di 50 milioni di brasiliani che votano progressista. Non fu una scelta lungimirante, come tante dei Ds prima di confluire nel Partito Democratico.
Se quello che rimane della sinistra italiana fosse capace di vincere la sua invincibile presunzione, dovrebbe riflettere sui due mandati presidenziali del brasiliano Lula che non hanno solo segnato per la prima volta l'affermazione in Brasile di un governo e di una politica di progresso, ma hanno portato anche la nazione delle favelas ad essere nuovamente una potenza continentale, riuscendo nello stesso tempo a raggiungere conquiste sociali e civili impensabili solo trent'anni fa, ai tempi della dittatura militare e del feroce Plan Condor. Aggiudicarsi l'organizzazione dei mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016, in un mondo che vive di eventi grazie ai quali si scommette sulla modernizzazione di un paese, è infatti segno di grande credibilità politica, economica e culturale.
Il Brasile dell'ex sindacalista Lula e il continente latinoamericano, con le sue conquiste sociali e democratiche di questi ultimi anni, sono un esempio di come si possa evitare di rimanere fino in fondo prigionieri della logica dell'economia neoliberale, delle politiche di aggiustamento strutturale e del debito estero care al Fondo monetario, alla Banca mondiale e all'egoismo di molte multinazionali.
Le scelte di Lula, condizionate spesso dai numeri che gli mancavano in parlamento o al senato o dall'arroganza di una confindustria poderosa e spesso giurassica, non sono sempre state coerenti, fino a rinviare per ora il suo sogno più importante: la riforma agraria. Ma aver varato con successo un piano come Fame zero, che ha assicurato la possibilità di alimentarsi tre volte al giorno a 60 milioni di cittadini, o aver finalmente rimesso in moto una giustizia che, per esempio, sulle repressioni dei terratenientes sulla pelle dei contadini nemmeno indagava, non sono meriti da poco. Così come aver avuto la lungimiranza di trovare una sintonia non facile con il Venezuela di Chavez, altro protagonista del riscatto latinoamericano che ha portato all'allargamento del Mercosur, alla nascita di realtà come il Banco del Sur, Telesur e a una solidale politica energetica comune, in favore delle nazioni più povere del continente. E lo stesso si può dire della politica di apertura verso l'Africa, dove Lula è andato una decina di volte stringendo accordi economici generosi per quei paesi.
Ma buona parte della nostra sinistra di tutto questo non si è accorta, mentre si decomponeva non ha rinunciato alla sua superbia, perdendo di vista perfino il fatto che il Brasile, nell'anno della crisi mondiale, ha sfiorato la recessione solo nel primo quadrimestre del 2009, uscendone nel terzo quadrimestre con la creazione di 250mila nuovi posti di lavoro, che diventeranno entro la fine dell'anno più di un milione. Inoltre grazie alla redistribuzione del reddito, 19 milioni di persone (il 10% dei cittadini) sono usciti dalla povertà e nel 2008 il reddito della classe medio-bassa è aumentato del 213%, mentre quello della classe media è salito del 45%.
Nel 2010 il Brasile che ha raggiunto l'autonomia energetica grazie alla scoperta di nuovi giacimenti di petrolio lungo le sue coste, avrà un più 5% di Pil e quando arriverà la stagione delle Olimpiadi sarà la quinta potenza economica del mondo.
Forse questo Lula a Firenze andava invitato. Forse la sua capacità di navigazione e di riscatto, in un continente che era il «cortile di casa» degli Usa, andava apprezzata.
Quando, qualche anno fa, l'Internazionale socialista si riunì a San Paolo del Brasile, in un continente reduce da tutti i soprusi dell'economia neoliberale, Fassino a nome dei nostri Ds chiese subito di poter fare un documento contro Cuba. Lula, presidente del paese ospitante, intervenne personalmente: «Non se ne parla nemmeno. Senza la resistenza di Cuba - disse - il riscatto attuale dell'America latina non sarebbe stato possibile». E alla fine del 2008, dopo alcune critiche mosse da Fidel per la sua scelta di intensificare l'estrazione dell'etanolo della canna come combustibile, fece tappa all'Avana con i ministri più rappresentativi del suo governo per andarne a parlare con Castro.
Lula evidentemente non è estremo come Chavez, ma come si governa con un'idea di sinistra lo sa perfettamente, pur non avendo studiato marxismo alla scuola di partito delle Frattocchie, ma essendosi formato secondo l'insegnamento del pedagogo cattolico Paulo Freire.
g.mina@giannimina.it