Fonte: http://www.articolo21.info/
di Antonella Napoli
Tante volte da queste pagine virtuali vi abbiamo parlato di Darfur, dei soprusi subiti da una popolazione vittima di un sanguinoso conflitto iniziato nel 2003: un conflitto e una crisi umanitaria troppo spesso dimenticate. Articolo 21, raccogliendo l'appello di Italians for Darfur che nel 2006 ha lanciato una campagna e una raccolta di firme affinché si accendessero i riflettori sugli orrori di questa guerra, ha fornito un importante contributo a una causa che col tempo ha raccolto adesioni sia del mondo dello spettacolo e della politica sia della società civile.
Questa volta, però, andiamo oltre. Di ritorno da una missione in Sudan promossa dall’Intergruppo parlamentare Italia Darfur e da Italians for Darfur, la consapevolezza - e passo a raccontarvi impressioni, emozioni e frustrazioni in prima persona - che tutto quello che si è riusciti a fare finora non sia sufficiente, che bisogna fare di più, è più forte che mai... e vi spiego il perché.
Rispetto al 2007, quando insieme a una delegazione della Commissione Esteri della Camera avevo visitato ‘Al Salam Camp’, nel nord Darfur, non ho trovato volti scavati dalla fame, fantasmi senza futuro che non avevano neanche la forza di chiedere aiuto. Stavolta non sono state le migliaia di persone che pelle e ossa vagavano per il campo con gli occhi sbarrati dal panico o le agghiaccianti testimonianze delle ragazze che raccontavano il terrore degli stupri subiti a segnarmi profondamente. Questa volta è bastato il ‘contesto’... Il degrado umano dilagante, l'assenza di ogni barlume di speranza negli sguardi che ti scrutano nel profondo, la delusione trasformata in rassegnazione di non poter cambiare uno ‘status’ incancrenito, che ti porta a perdere dignità e futuro.
E’ vero, la situazione alimentare non è al tracollo. Nonostante l'espulsione di 13 organizzazioni internazionali che garantivano la distribuzione del cibo e l’assistenza umanitaria a oltre un milione di profughi il sistema del Programma alimentare mondiale ha retto. Ma la rabbia repressa e il dolore immane per un’esistenza ai limiti della sopravvivenza e del decoro, hanno ‘inciso’ un marchio indelebile sulla pelle di questa gente. Avrei preferito trovarli con qualche chilo di meno addosso piuttosto che deturpati da una ferita aperta che neanche il tempo riuscirà a guarire.
Quando bambini di quattro – cinque anni si azzuffano e calpestano i fratellini di pochi mesi pur di strappare dalle mani di chi li porge quaderni e matite che probabilmente non useranno mai, comprendi che per loro il presente e il futuro sono segnati da abbandono, disinteresse e violenza.
Tutto questo e molto di più, o di peggio, è ancor oggi il Darfur. Eppure ci dicono che la fase critica è passata, che ai trecentomila morti causati dal conflitto che ha spinto alla fuga due milioni e mezzo di persone non si aggiungeranno altre vittime perché la guerra è finita!
E allora se la guerra è davvero ‘finita’ perché negli ultimi dieci mesi la popolazione di Zam Zam Camp, il centro di accoglienza visitato pochi giorni fa con il presidente del’Interparlamentare Italia – Darfur, Gianni Vernetti, è praticamente raddoppiato passando dai circa 60mila del 2008 agli oltre 100mila di quest’anno? E non è l’unico punto di approdo di questa marea di disperati che non si arresta in tutta la regione.
A spingerli lontani dai loro villaggi non sarà più la paura dei janjaweed, i cosiddetti ‘diavoli a cavallo’ – che secondo la Corte penale internazionale, hanno compiuto massacri indicibili sotto la guida del regime di Khartoum - ma la mancanza di sicurezza, che espone sia la popolazione locale sia gli operatori umanitari e gli stessi peacekeeper della missione Onu – Ua che dovrebbe garantire ad essi protezione, lo è di certo!
La crisi umanitaria, già gravissima, rischia di diventare incontrollabile a causa delle continue incursioni di gruppi criminali armati che sequestrano indifferentemente civili, militari e cooperanti persino nelle loro abitazioni e/o sedi di lavoro.
Nonostante la complessità della situazione che si è delineata nel corso delle ultime visite degli osservatori delle Nazioni Unite e le preoccupazioni esternate dagli operatori delle Ong ‘superstiti’, il governo sudanese - interpellato nel corso della visita - non è sembrato affatto preoccupato. Anzi. Il Governatore del Darfur ha annunciato che è in atto un flusso di rientro dei profughi nelle proprie abitazioni e che i villaggi abbandonati in passato per timori di attacchi, si stiano ripopolando.
Peccato che i capi tribali di Zam Zam, ai quali abbiamo chiesto informazioni in merito, abbiano smentito quanto sostenuto dagli esponenti governativi incontrati poco prima. Non hanno esitato un attimo nel confermare che nessuno potrà mai tornare nella propria casa se prima non saranno garantite le minime condizioni di sicurezza per rendere i rientri possibili.Basta parlare con i cooperanti presenti nella provincia di Al Fasher e i rifugiati per comprendere che i timori di nuovi attacchi e violenze siano più forti che mai. Nonostante il contingente di Caschi Blu schierato (ancora non completamente, siamo ancora al 75% dei 26 mila uomini previsti) per proteggere la popolazione darfuriana e chi in questa arida regione del Sudan è arrivato per portare aiuto. Girando tra le capanne e le tende di Zam Zam è facile rendersi conto di quanto l’emergenza sia ancora pressante. Dopo gli ultimi arrivi dell’estate scorsa non c'è più posto. Non viene più accettato nessuno. Il messaggio degli sfollati e di chi li assiste è forte e chiaro. "Abbiamo bisogno di voi più di prima".
Il dramma che si vive qui è lo stesso di tanti altri centri di accoglienza: poca acqua, cibo appena sufficiente, rifugi di fortuna e tutt’intorno il nulla. L’appello di aiuto viene pronunciato da tutti gli interlocutori che si incontrano. Un'invocazione che si legge sul volto delle donne e degli uomini assiepati nell’accampamento che dovrebbe garantirgli la sicurezza. E invece non è così. Una situazione disperata, che coinvolge sempre più persone inermi, ataviche, prive di ogni interesse per la vita, che ormai chiedono elemosina per inerzia (aspetto paradossale di questa tragedia nella tragedia) anche se nel campo non dovrebbe mancargli nulla.
Sono soprattutto i bambini a tendere le mani, a tirarti per la giacca e a chiedere… ‘money?’, l’unica parola in inglese conosciuta. Sono proprio loro le vittime maggiori di questa crisi umanitaria, crisi che ormai sembra cronicizzata, congelata nella sua mancata soluzione. Tutto ciò lascia davvero poche possibilità a questi piccoli di vivere, un giorno, un’esistenza migliore dei loro padri e delle loro madri.
di Antonella Napoli
Tante volte da queste pagine virtuali vi abbiamo parlato di Darfur, dei soprusi subiti da una popolazione vittima di un sanguinoso conflitto iniziato nel 2003: un conflitto e una crisi umanitaria troppo spesso dimenticate. Articolo 21, raccogliendo l'appello di Italians for Darfur che nel 2006 ha lanciato una campagna e una raccolta di firme affinché si accendessero i riflettori sugli orrori di questa guerra, ha fornito un importante contributo a una causa che col tempo ha raccolto adesioni sia del mondo dello spettacolo e della politica sia della società civile.
Questa volta, però, andiamo oltre. Di ritorno da una missione in Sudan promossa dall’Intergruppo parlamentare Italia Darfur e da Italians for Darfur, la consapevolezza - e passo a raccontarvi impressioni, emozioni e frustrazioni in prima persona - che tutto quello che si è riusciti a fare finora non sia sufficiente, che bisogna fare di più, è più forte che mai... e vi spiego il perché.
Rispetto al 2007, quando insieme a una delegazione della Commissione Esteri della Camera avevo visitato ‘Al Salam Camp’, nel nord Darfur, non ho trovato volti scavati dalla fame, fantasmi senza futuro che non avevano neanche la forza di chiedere aiuto. Stavolta non sono state le migliaia di persone che pelle e ossa vagavano per il campo con gli occhi sbarrati dal panico o le agghiaccianti testimonianze delle ragazze che raccontavano il terrore degli stupri subiti a segnarmi profondamente. Questa volta è bastato il ‘contesto’... Il degrado umano dilagante, l'assenza di ogni barlume di speranza negli sguardi che ti scrutano nel profondo, la delusione trasformata in rassegnazione di non poter cambiare uno ‘status’ incancrenito, che ti porta a perdere dignità e futuro.
E’ vero, la situazione alimentare non è al tracollo. Nonostante l'espulsione di 13 organizzazioni internazionali che garantivano la distribuzione del cibo e l’assistenza umanitaria a oltre un milione di profughi il sistema del Programma alimentare mondiale ha retto. Ma la rabbia repressa e il dolore immane per un’esistenza ai limiti della sopravvivenza e del decoro, hanno ‘inciso’ un marchio indelebile sulla pelle di questa gente. Avrei preferito trovarli con qualche chilo di meno addosso piuttosto che deturpati da una ferita aperta che neanche il tempo riuscirà a guarire.
Quando bambini di quattro – cinque anni si azzuffano e calpestano i fratellini di pochi mesi pur di strappare dalle mani di chi li porge quaderni e matite che probabilmente non useranno mai, comprendi che per loro il presente e il futuro sono segnati da abbandono, disinteresse e violenza.
Tutto questo e molto di più, o di peggio, è ancor oggi il Darfur. Eppure ci dicono che la fase critica è passata, che ai trecentomila morti causati dal conflitto che ha spinto alla fuga due milioni e mezzo di persone non si aggiungeranno altre vittime perché la guerra è finita!
E allora se la guerra è davvero ‘finita’ perché negli ultimi dieci mesi la popolazione di Zam Zam Camp, il centro di accoglienza visitato pochi giorni fa con il presidente del’Interparlamentare Italia – Darfur, Gianni Vernetti, è praticamente raddoppiato passando dai circa 60mila del 2008 agli oltre 100mila di quest’anno? E non è l’unico punto di approdo di questa marea di disperati che non si arresta in tutta la regione.
A spingerli lontani dai loro villaggi non sarà più la paura dei janjaweed, i cosiddetti ‘diavoli a cavallo’ – che secondo la Corte penale internazionale, hanno compiuto massacri indicibili sotto la guida del regime di Khartoum - ma la mancanza di sicurezza, che espone sia la popolazione locale sia gli operatori umanitari e gli stessi peacekeeper della missione Onu – Ua che dovrebbe garantire ad essi protezione, lo è di certo!
La crisi umanitaria, già gravissima, rischia di diventare incontrollabile a causa delle continue incursioni di gruppi criminali armati che sequestrano indifferentemente civili, militari e cooperanti persino nelle loro abitazioni e/o sedi di lavoro.
Nonostante la complessità della situazione che si è delineata nel corso delle ultime visite degli osservatori delle Nazioni Unite e le preoccupazioni esternate dagli operatori delle Ong ‘superstiti’, il governo sudanese - interpellato nel corso della visita - non è sembrato affatto preoccupato. Anzi. Il Governatore del Darfur ha annunciato che è in atto un flusso di rientro dei profughi nelle proprie abitazioni e che i villaggi abbandonati in passato per timori di attacchi, si stiano ripopolando.
Peccato che i capi tribali di Zam Zam, ai quali abbiamo chiesto informazioni in merito, abbiano smentito quanto sostenuto dagli esponenti governativi incontrati poco prima. Non hanno esitato un attimo nel confermare che nessuno potrà mai tornare nella propria casa se prima non saranno garantite le minime condizioni di sicurezza per rendere i rientri possibili.Basta parlare con i cooperanti presenti nella provincia di Al Fasher e i rifugiati per comprendere che i timori di nuovi attacchi e violenze siano più forti che mai. Nonostante il contingente di Caschi Blu schierato (ancora non completamente, siamo ancora al 75% dei 26 mila uomini previsti) per proteggere la popolazione darfuriana e chi in questa arida regione del Sudan è arrivato per portare aiuto. Girando tra le capanne e le tende di Zam Zam è facile rendersi conto di quanto l’emergenza sia ancora pressante. Dopo gli ultimi arrivi dell’estate scorsa non c'è più posto. Non viene più accettato nessuno. Il messaggio degli sfollati e di chi li assiste è forte e chiaro. "Abbiamo bisogno di voi più di prima".
Il dramma che si vive qui è lo stesso di tanti altri centri di accoglienza: poca acqua, cibo appena sufficiente, rifugi di fortuna e tutt’intorno il nulla. L’appello di aiuto viene pronunciato da tutti gli interlocutori che si incontrano. Un'invocazione che si legge sul volto delle donne e degli uomini assiepati nell’accampamento che dovrebbe garantirgli la sicurezza. E invece non è così. Una situazione disperata, che coinvolge sempre più persone inermi, ataviche, prive di ogni interesse per la vita, che ormai chiedono elemosina per inerzia (aspetto paradossale di questa tragedia nella tragedia) anche se nel campo non dovrebbe mancargli nulla.
Sono soprattutto i bambini a tendere le mani, a tirarti per la giacca e a chiedere… ‘money?’, l’unica parola in inglese conosciuta. Sono proprio loro le vittime maggiori di questa crisi umanitaria, crisi che ormai sembra cronicizzata, congelata nella sua mancata soluzione. Tutto ciò lascia davvero poche possibilità a questi piccoli di vivere, un giorno, un’esistenza migliore dei loro padri e delle loro madri.