La questione della “razza” in Italia
Genealogia del razzismo lungo le trasformazioni dello sfruttamento
di Anna Curcio
11 / 10 / 2009
Fonte: http://www.globalproject.info/it/in_movimento/La-questione-della-razza-in-Italia/2272
Alla fine degli anni settanta, quando la Rai mise in onda Radici, il serial televisivo sulla storia degli schiavi africani in America, mia nonna che il novecento lo ha attraversato tutto, chiedeva con insistenza di cambiare canale: “i negri mi fanno impressione” diceva. É stato in questo modo che, bambina, ho scoperto la “razza” e il razzismo, anche se solo nei decenni successivi avrei compreso fino in fondo di cosa si trattava, perché quei corpi neri terrorizzavano tanto mia nonna.
Dieci anni dopo, verso la fine degli anni ottanta, la musica di Chuck D, i Public Enemy e la storia delle Black Panther che presi a divorare, forse spinta proprio dalla curiosità aperta dall’affermazione di mia nonna, mi insegnarono che la “razza” non é un fattore biologico, ma anche che le discriminazioni razziali e le lotte che sfidavano apertamente tali discriminazioni, non sono un affare americano. Anche in Italia, oggi come ieri, le discriminazioni sul terreno della “razza” hanno stabilito gerarchie, rapporti di subordinazione e forme dello sfruttamento.
Mia nonna, settantaquattro anni nel 1978 e trentadue nel 1936 al momento dell’espansione italiana in Etiopia, aveva direttamente vissuto la grande depressione, quando la retorica fascista ed il progetto di espansione in Africa si proponevano di gestire il terremoto che aveva investito la divisione internazionale del lavoro. All’indomani della crisi si trattava di definire una nuova organizzazione del lavoro e la “faccetta nera” avrebbe garantito l’esistenza di un bacino di forza lavoro a basso costo.
A partire dall’Unità d’Italia, era stato il lavoro meridionale a garantire alle nascenti imprese industriali l’approvvigionamento di forza lavoro a basso costo. Supportato da un’ampia letteratura che distingueva una razza ariana e caucasica nel nord ed una razza negroide nel sud, produttiva la prima, pigra e indolente la seconda, il razzismo antimeridionale di fine ottocento aveva gestito la costituzione del mercato del lavoro dell’Italia unitaria, stabilendo la subordinazione dei lavoratori meridionali. Ma é soprattutto con lo sviluppo industriale del secondo dopoguerra che una «nuova costellazione del razzismo» si impose. Sono gli anni delle migrazioni interne, quando le grandi città industriali del nord moltiplicano rapidamente la popolazione e la razzializzazione del lavoro dal sud trova nei cartelli “non si affitta a meridionali” una delle innumerevoli manifestazioni.
Ancora una volta la subordinazione del lavoro razzializzato si pone a servizio del capitale gestendo, questa volta, le trasformazioni produttive e il “miracolo italiano”. Ma la “razza”, la storia americana e il Black Power insegnano, é anche un potente terreno di soggettivazione, spazio per la produzione di conflitti e ambito di trasformazione politiche e sociali. Sono proprio gli operai meridionali razzializzati che animano le lotte degli anni sessanta e settanta, riconfigurando le relazioni del lavoro e dell’intera società.
Negli anni successivi, i processi di globalizzazione e le trasformazioni produttive, proporranno il razzismo in forma nuova. Ma quando la Rai manda in onda Radici, l’Italia non é un paese multietnico. Il colonialismo straccione di questo paese non ha mai avviato i trasferimenti in massa dalle ex colonie che in Francia o in Gran Bretagna avevano disegnato una società multietnica. Ci vorranno gli anni Ottanta, quando, le spiagge di mezza Italia e le città d’arte del paese si popolano di venditori ambulanti: i «vu cumpra’» in Calabria, dove sono cresciuta. Di lì in avanti accantonato il razzismo meridionale sarà un crescendo di razzismo anti-immigrati che andrà di pari passo al crescere ininterrotto delle migrazioni.
Nel febbraio del 1991 i bottegai fiorentini organizzano un raid contro gli ambulanti. Si tratta a mia memoria, del primo episodio di nuovo razzismo, il primo di una lunga serie di episodi che hanno avuto una violenta recrudescenza negli ultimissimi anni, con l’insediamento del governo razzista di Pdl e Lega Nord. Ma il razzismo istituzionale nella storia più recente di questo paese ci rimanda almeno alla primavera del 1996. Una corvetta della guardia di finanza sperona e affonda nel canale di Otranto l’ennesima nave di profughi albanesi diretta verso le coste pugliesi, Romano Prodi é alla guida del governo. Nel 1998 la legge Turco-Napolitano che istituisce i Centri di Permanenza Temporanea istituzionalizza definitivamente il razzismo anti-immigrati.
Razzializzazione e illegalizzazione saranno di lì in avanti le parole d’ordine bipartisan per la gestione del mercato del lavoro in Italia e in Europa. Nordafricani, filippini, albanesi, senegalesi, etiopi, e poi donne e uomini da Ucraina, Russia, Romania hanno visto alternativamente restringersi o dilatarsi le maglie del razzismo. Un vero e proprio «management razziale» ha a fasi alterne garantito l’accesso di alcuni e l’espulsione di altri. Un sistema a soffietto che si é indiscutibilmente irrigidito con la crisi economica globale. Gli “extracomunitari” albanesi, nemico pubblico negli anni Novanta, hanno lasciato il posto ai rumeni, ormai cittadini europei, quando hanno trovato una collocazione, benché subordinata, nel mercato del lavoro Oggi moltissimi indiani, pachistani, magrebini, senegalesi hanno assunto ruoli chiave, spesso indispensabili, in molti settori produttivi, altri si sono fatti carico del lavoro edilizio, quello in subappalto e privo di garanzie. Finanche il pacchetto sicurezza, la più grande stretta sull’immigrazione che questo paese ricordi, ha dovuto cedere alle pressioni del mercato e garantire un sistema, seppur capestro, per legalizzare i lavoratori e soprattutto le lavoratrici migranti impegnate nel lavoro di cura ormai ampiamente esternalizzato dalle famiglie.
La questione della “razza”, dunque, in Italia come altrove, lungi dall’essere un mero fenomeno ideologico ha radici profondamente materiali. Bisogna indignarsi davanti al respingimento dei richiedenti asilo, alla criminalizzazione di chi é privo di documenti, alle espulsioni. Poiché le condizioni dei migranti sono il paradigma delle nuove forme di vita e della precarietà di tutti, occorre costruire ampie coalizioni che sappiano mettere a tema il nodo dello sfruttamento per rovesciare l’ordine sociale e del lavoro vigente.
Dieci anni dopo, verso la fine degli anni ottanta, la musica di Chuck D, i Public Enemy e la storia delle Black Panther che presi a divorare, forse spinta proprio dalla curiosità aperta dall’affermazione di mia nonna, mi insegnarono che la “razza” non é un fattore biologico, ma anche che le discriminazioni razziali e le lotte che sfidavano apertamente tali discriminazioni, non sono un affare americano. Anche in Italia, oggi come ieri, le discriminazioni sul terreno della “razza” hanno stabilito gerarchie, rapporti di subordinazione e forme dello sfruttamento.
Mia nonna, settantaquattro anni nel 1978 e trentadue nel 1936 al momento dell’espansione italiana in Etiopia, aveva direttamente vissuto la grande depressione, quando la retorica fascista ed il progetto di espansione in Africa si proponevano di gestire il terremoto che aveva investito la divisione internazionale del lavoro. All’indomani della crisi si trattava di definire una nuova organizzazione del lavoro e la “faccetta nera” avrebbe garantito l’esistenza di un bacino di forza lavoro a basso costo.
A partire dall’Unità d’Italia, era stato il lavoro meridionale a garantire alle nascenti imprese industriali l’approvvigionamento di forza lavoro a basso costo. Supportato da un’ampia letteratura che distingueva una razza ariana e caucasica nel nord ed una razza negroide nel sud, produttiva la prima, pigra e indolente la seconda, il razzismo antimeridionale di fine ottocento aveva gestito la costituzione del mercato del lavoro dell’Italia unitaria, stabilendo la subordinazione dei lavoratori meridionali. Ma é soprattutto con lo sviluppo industriale del secondo dopoguerra che una «nuova costellazione del razzismo» si impose. Sono gli anni delle migrazioni interne, quando le grandi città industriali del nord moltiplicano rapidamente la popolazione e la razzializzazione del lavoro dal sud trova nei cartelli “non si affitta a meridionali” una delle innumerevoli manifestazioni.
Ancora una volta la subordinazione del lavoro razzializzato si pone a servizio del capitale gestendo, questa volta, le trasformazioni produttive e il “miracolo italiano”. Ma la “razza”, la storia americana e il Black Power insegnano, é anche un potente terreno di soggettivazione, spazio per la produzione di conflitti e ambito di trasformazione politiche e sociali. Sono proprio gli operai meridionali razzializzati che animano le lotte degli anni sessanta e settanta, riconfigurando le relazioni del lavoro e dell’intera società.
Negli anni successivi, i processi di globalizzazione e le trasformazioni produttive, proporranno il razzismo in forma nuova. Ma quando la Rai manda in onda Radici, l’Italia non é un paese multietnico. Il colonialismo straccione di questo paese non ha mai avviato i trasferimenti in massa dalle ex colonie che in Francia o in Gran Bretagna avevano disegnato una società multietnica. Ci vorranno gli anni Ottanta, quando, le spiagge di mezza Italia e le città d’arte del paese si popolano di venditori ambulanti: i «vu cumpra’» in Calabria, dove sono cresciuta. Di lì in avanti accantonato il razzismo meridionale sarà un crescendo di razzismo anti-immigrati che andrà di pari passo al crescere ininterrotto delle migrazioni.
Nel febbraio del 1991 i bottegai fiorentini organizzano un raid contro gli ambulanti. Si tratta a mia memoria, del primo episodio di nuovo razzismo, il primo di una lunga serie di episodi che hanno avuto una violenta recrudescenza negli ultimissimi anni, con l’insediamento del governo razzista di Pdl e Lega Nord. Ma il razzismo istituzionale nella storia più recente di questo paese ci rimanda almeno alla primavera del 1996. Una corvetta della guardia di finanza sperona e affonda nel canale di Otranto l’ennesima nave di profughi albanesi diretta verso le coste pugliesi, Romano Prodi é alla guida del governo. Nel 1998 la legge Turco-Napolitano che istituisce i Centri di Permanenza Temporanea istituzionalizza definitivamente il razzismo anti-immigrati.
Razzializzazione e illegalizzazione saranno di lì in avanti le parole d’ordine bipartisan per la gestione del mercato del lavoro in Italia e in Europa. Nordafricani, filippini, albanesi, senegalesi, etiopi, e poi donne e uomini da Ucraina, Russia, Romania hanno visto alternativamente restringersi o dilatarsi le maglie del razzismo. Un vero e proprio «management razziale» ha a fasi alterne garantito l’accesso di alcuni e l’espulsione di altri. Un sistema a soffietto che si é indiscutibilmente irrigidito con la crisi economica globale. Gli “extracomunitari” albanesi, nemico pubblico negli anni Novanta, hanno lasciato il posto ai rumeni, ormai cittadini europei, quando hanno trovato una collocazione, benché subordinata, nel mercato del lavoro Oggi moltissimi indiani, pachistani, magrebini, senegalesi hanno assunto ruoli chiave, spesso indispensabili, in molti settori produttivi, altri si sono fatti carico del lavoro edilizio, quello in subappalto e privo di garanzie. Finanche il pacchetto sicurezza, la più grande stretta sull’immigrazione che questo paese ricordi, ha dovuto cedere alle pressioni del mercato e garantire un sistema, seppur capestro, per legalizzare i lavoratori e soprattutto le lavoratrici migranti impegnate nel lavoro di cura ormai ampiamente esternalizzato dalle famiglie.
La questione della “razza”, dunque, in Italia come altrove, lungi dall’essere un mero fenomeno ideologico ha radici profondamente materiali. Bisogna indignarsi davanti al respingimento dei richiedenti asilo, alla criminalizzazione di chi é privo di documenti, alle espulsioni. Poiché le condizioni dei migranti sono il paradigma delle nuove forme di vita e della precarietà di tutti, occorre costruire ampie coalizioni che sappiano mettere a tema il nodo dello sfruttamento per rovesciare l’ordine sociale e del lavoro vigente.