Fonte:
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/identita-e-una-casa-aperta/2117409&ref=hpsp
La popolazione europea è in via di mutamento nelle sue componenti, nei suoi colori, nella sua apparenza? O è simile al mare quale lo descrive, nei suoi 'Canti di Maldoror', il poeta Lautréamont: "Vecchio Oceano, simbolo dell'identità: sempre uguale a te stesso, nulla cambia della tua essenza."?
Di fatto, il paesaggio umano della nuova Europa sta mutando ogni giorno di più. Basta veder passare la folla nelle vie di Parigi, Francoforte o Torino. La mescolanza è ben visibile. I bianchi non sono più i soli rappresentanti della civiltà occidentale. Appaiono evidenti gli effetti dell'immigrazione di gruppi numerosi e diversi, alcuni strutturalmente insediati: il meticciato avanza, la cultura si arricchisce di nuovi apporti nel campo della musica, della letteratura, della gastronomia.
L'immigrazione è passata a una nuova fase. Non è più il tempo dell'arrivo di contadini analfabeti, scesi dalle montagne del Marocco o dell'Algeria. Le famiglie si ricompongono e cresce il numero dei figli nati in territorio europeo: non più immigrati dunque, anche se spesso i media e i politici tendono ad alimentare la confusione. Questi figli di immigrati sono europei, e non soltanto in base allo 'jus soli'. Il paese d'origine dei genitori lo conoscono appena; il loro universo psicologico e mentale si è formato nelle scuole e nelle strade di quest'Europa, che pure li considera cittadini di seconda categoria.
A Marsiglia, in occasione del Primo Colloquio tra scrittori del Mediterraneo (dal 20 al 22 novembre 2009), ho incontrato gli alunni di una classe elementare. I loro nomi: Bilal, Fatema, Marianne, Zeinab, Moktar, Kevin: tutti francesi, nati in Francia, che parlano un francese perfetto. Bianchi, neri, di origine araba, turca, vietnamita, armena o francesi doc. Per loro la questione dell'identità non esiste. Mi hanno fatto domande sul razzismo, sull'Islam, sulla pace tra ebrei e arabi, ma il tema dell'identità non ha mai neppure sfiorato la loro mente.
Il ministro francese dell'Immigrazione e dell'Identità nazionale Eric Besson ha scelto questo momento per lanciare un dibattito sulla questione dell'identità francese. Cosa vuol dire essere francesi? Significa appartenere a una comunità linguistica, culturale, religiosa? Oppure essere nati in terra francese, anche se da genitori stranieri?
La questione dell'identità è legittima quando viene posta da un agente di polizia o da una guardia di confine. Ma se a occuparsene sono i politici, c'è qualcosa di sospetto; vuol dire che esiste un disagio. L'identità non è immutabile come un blocco di cemento, e soprattutto non è definitiva; altrimenti si sconfina nel nazionalismo. Ne conosciamo i pericoli: è un sentimento che può portare alle derive dell'isterismo collettivo, e ai più pericolosi eccessi. Quando le identità si scontrano, spesso le cose volgono al peggio. Le guerre dell'ex Jugoslavia hanno dimostrato e fino a che punto le conseguenze possono essere sanguinose.
La purezza è l'unico ingrediente che non dovrebbe mai entrare nella composizione del concetto di identità. Hitler, che era un nostalgico di quella famosa purezza della razza, perpetrò il più grande genocidio della storia. Essere identici? Essere unici! L'individuo è unico, ma al tempo stesso somiglia a tutti gli altri individui. Ci assomigliamo perché tutti siamo unici. La nostra identità sta in questa diversità, in questa unicità. Sappiamo da tempo che un'identità chiusa, inaridita, perde il suo profumo e la sua anima. Un'identità è qualcosa che dà e riceve. In essa nulla è cristallizzato, definitivo. La Francia di oggi, l'Europa di oggi, sono sollecitate ad accettare con ottimismo e calore ciò che stanno diventando. L'opportunità sta precisamente negli apporti molteplici e variegati, nell'acquisizione della lingua e della civiltà degli europei.
Dobbiamo applaudire una squadra di calcio che gioca mediocremente o scorrettamente solo perché è quella del nostro Paese? Anche lo sport è diventato un vettore di simboli politici. Le nazioni si affrontano su un campo di football. Cito a memoria J. L. Borges che ironizzava: "L'Honduras ha schiacciato il Messico!". Ed è stato ancora Borges a dire, a proposito dell'identità argentina: "Gli egiziani discendono dai Faraoni, gli argentini dalle navi". Ma sia gli uni che gli altri non si perdono in discussioni inutili sull'identità nazionale. È in questo senso che Michel Rocard, già primo ministro di François Mitterrand, ha definito "stupido" il dibattito sull'argomento. E ha ragione. L'Europa ha altri cantieri ben più importanti di cui occuparsi per dare un futuro a milioni di bambini e di giovani nati europei, anche se trattati come stranieri. È ora che i nuovi europei possano essere tali in modo naturale e con semplicità. Per arrivare a questo bisogna però ammettere che un'identità è una casa aperta, che si ingrandisce e si arricchisce ogni giorno.
(traduzione di Elisabetta Horvat)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/identita-e-una-casa-aperta/2117409&ref=hpsp
La popolazione europea è in via di mutamento nelle sue componenti, nei suoi colori, nella sua apparenza? O è simile al mare quale lo descrive, nei suoi 'Canti di Maldoror', il poeta Lautréamont: "Vecchio Oceano, simbolo dell'identità: sempre uguale a te stesso, nulla cambia della tua essenza."?
Di fatto, il paesaggio umano della nuova Europa sta mutando ogni giorno di più. Basta veder passare la folla nelle vie di Parigi, Francoforte o Torino. La mescolanza è ben visibile. I bianchi non sono più i soli rappresentanti della civiltà occidentale. Appaiono evidenti gli effetti dell'immigrazione di gruppi numerosi e diversi, alcuni strutturalmente insediati: il meticciato avanza, la cultura si arricchisce di nuovi apporti nel campo della musica, della letteratura, della gastronomia.
L'immigrazione è passata a una nuova fase. Non è più il tempo dell'arrivo di contadini analfabeti, scesi dalle montagne del Marocco o dell'Algeria. Le famiglie si ricompongono e cresce il numero dei figli nati in territorio europeo: non più immigrati dunque, anche se spesso i media e i politici tendono ad alimentare la confusione. Questi figli di immigrati sono europei, e non soltanto in base allo 'jus soli'. Il paese d'origine dei genitori lo conoscono appena; il loro universo psicologico e mentale si è formato nelle scuole e nelle strade di quest'Europa, che pure li considera cittadini di seconda categoria.
A Marsiglia, in occasione del Primo Colloquio tra scrittori del Mediterraneo (dal 20 al 22 novembre 2009), ho incontrato gli alunni di una classe elementare. I loro nomi: Bilal, Fatema, Marianne, Zeinab, Moktar, Kevin: tutti francesi, nati in Francia, che parlano un francese perfetto. Bianchi, neri, di origine araba, turca, vietnamita, armena o francesi doc. Per loro la questione dell'identità non esiste. Mi hanno fatto domande sul razzismo, sull'Islam, sulla pace tra ebrei e arabi, ma il tema dell'identità non ha mai neppure sfiorato la loro mente.
Il ministro francese dell'Immigrazione e dell'Identità nazionale Eric Besson ha scelto questo momento per lanciare un dibattito sulla questione dell'identità francese. Cosa vuol dire essere francesi? Significa appartenere a una comunità linguistica, culturale, religiosa? Oppure essere nati in terra francese, anche se da genitori stranieri?
La questione dell'identità è legittima quando viene posta da un agente di polizia o da una guardia di confine. Ma se a occuparsene sono i politici, c'è qualcosa di sospetto; vuol dire che esiste un disagio. L'identità non è immutabile come un blocco di cemento, e soprattutto non è definitiva; altrimenti si sconfina nel nazionalismo. Ne conosciamo i pericoli: è un sentimento che può portare alle derive dell'isterismo collettivo, e ai più pericolosi eccessi. Quando le identità si scontrano, spesso le cose volgono al peggio. Le guerre dell'ex Jugoslavia hanno dimostrato e fino a che punto le conseguenze possono essere sanguinose.
La purezza è l'unico ingrediente che non dovrebbe mai entrare nella composizione del concetto di identità. Hitler, che era un nostalgico di quella famosa purezza della razza, perpetrò il più grande genocidio della storia. Essere identici? Essere unici! L'individuo è unico, ma al tempo stesso somiglia a tutti gli altri individui. Ci assomigliamo perché tutti siamo unici. La nostra identità sta in questa diversità, in questa unicità. Sappiamo da tempo che un'identità chiusa, inaridita, perde il suo profumo e la sua anima. Un'identità è qualcosa che dà e riceve. In essa nulla è cristallizzato, definitivo. La Francia di oggi, l'Europa di oggi, sono sollecitate ad accettare con ottimismo e calore ciò che stanno diventando. L'opportunità sta precisamente negli apporti molteplici e variegati, nell'acquisizione della lingua e della civiltà degli europei.
Dobbiamo applaudire una squadra di calcio che gioca mediocremente o scorrettamente solo perché è quella del nostro Paese? Anche lo sport è diventato un vettore di simboli politici. Le nazioni si affrontano su un campo di football. Cito a memoria J. L. Borges che ironizzava: "L'Honduras ha schiacciato il Messico!". Ed è stato ancora Borges a dire, a proposito dell'identità argentina: "Gli egiziani discendono dai Faraoni, gli argentini dalle navi". Ma sia gli uni che gli altri non si perdono in discussioni inutili sull'identità nazionale. È in questo senso che Michel Rocard, già primo ministro di François Mitterrand, ha definito "stupido" il dibattito sull'argomento. E ha ragione. L'Europa ha altri cantieri ben più importanti di cui occuparsi per dare un futuro a milioni di bambini e di giovani nati europei, anche se trattati come stranieri. È ora che i nuovi europei possano essere tali in modo naturale e con semplicità. Per arrivare a questo bisogna però ammettere che un'identità è una casa aperta, che si ingrandisce e si arricchisce ogni giorno.
(traduzione di Elisabetta Horvat)